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“Laggiù qualcuno mi ama” e la fragilità rivoluzionaria

Laggiù qualcuno mi ama è un film con cui Massimo Troisi, a settant’anni dalla sua venuta al mondo, torna al cinema per essere riascoltato, rivisto, per stare con il suo pubblico ancora una volta e per insegnarci che a volte anche la fragilità può esplodere come tratto umano capace di rivoluzioni silenziose, ma durature. L’universalità del suo messaggio insieme alla misura della sua poetica sono riportate a galla dalla intelligente costruzione martoniana capace di mescolare sapientemente immagini di repertorio, spezzoni di film, contributi televisivi e documenti inediti.

L’amarezza dell’impossibile. “Nostalgia” e il cinema di Mario Martone

Nostalgia (tredicesimo film di Mario Martone) è un film bellissimo e saldamente collocato nella filmografia del suo regista, oltre che intriso del suo impeccabile stile (sentimentale, fotografico e architettonico) tanto da esserci apparso a tratti come il dagherrotipo de l’Amore molesto, nella sua versione virile. Nostalgia è un film dall’anima variegata e multigenere, pullulante di una eterogeneità tipica napoletana (così come il suo protagonista è multietnico e poli/identitario, musulmano, napoletano, emigrante e scugnizzo), che inizia come un thriller, si sviluppa come un melodramma e termina con un colpo di scena ferale che da alcuni è stato inteso come quello di un film “civile”.

“Qui rido io” per non piangere. Martone rilegge Scarpetta

Qui rido io — nel suo ritmo canonico, lento e preciso — finisce per tratteggiare senza sbavature una serie di domande mai scontate sulla paternità, sia essa biologica o autoriale, il cui accordo risiede in un compromesso doloroso. Lo suggerisce Benedetto Croce, nel delineare limiti e punti di forza della maschera di Felice Sciosciammocca, e lo sussurra il piccolo Eduardo (De Filippo) all’insofferente fratello Peppino: la risoluzione dello scontro respira unicamente sulle tavole del palcoscenico, spazio di austero gelo teatrale, che è poi espressione di agognatissima libertà.

“Il sindaco del Rione Sanità” di Mario Martone a Venezia 2019

Autore che nell’ultimo decennio si è dedicato al ripensamento del nostro passato tra storia risorgimentale e rivoluzioni culturali mancate, Mario Martone torna per il secondo anno consecutivo in concorso a Venezia con un film che in apparenza si distacca radicalmente dalle sue ultime prove. In una certa misura, tuttavia, Il sindaco del Rione Sanità potrebbe anche essere letto come un’appendice a quella ricerca del tempo perduto condotta in questi anni dal regista. All’origine, infatti, c’è il testo scritto nel 1960 da Eduardo De Filippo, incardinato sul ritratto di un personaggio che ben esprime un certo orizzonte sociale legato a un altro secolo: il capo che si è fatto da solo e interviene dove la giustizia ufficiale nulla può. L’aggiornamento anagrafico dei personaggi, dovuto al legittimo desiderio performativo di un Di Leva assai calato nella parte fino ai limiti del gigionismo, forza il testo nell’ambito di un’operazione che intende contaminare il classico con l’estetica, il décor, i colori di Gomorra. Nessuno è intoccabile, se si adatta Shakespeare perché non si dovrebbe mettere mano a Eduardo? Ma – e qui sta il problema – se il racconto della criminalità nel Sindaco del 1960 trovava una sua dimensione nel mutamento della stessa camorra in quel periodo, con il tramonto dei guappi paternalisti forse legati solo alla mitologia locale, al Sindaco del 2019 – arrivato dopo molti o troppi film sul temi analoghi – si riesce a credere fino a un certo punto.

“Capri-Revolution” tra realismo e idealismo

Capri-Revolution è un film coinvolgente che, con delicatezza, porta a chiedersi dove sia la linea di confine tra realismo e idealismo. Se la realtà sia ciò che si vede, o ciò che si sente. E se siamo ancora in grado di ascoltarci. “Gli uomini non sono al mondo con la vocazione di migliorarsi. Ma di diventare sé stessi”. Questa è la concezione di amore che traspare dal film: l’essere in grado di accogliere l’altro e sé stessi in tutto il proprio essere. Una libertà che da sempre è il desiderio più profondo della protagonista. Una donna che è uno spirito libero. Che non si ferma, ma volge sempre lo sguardo all’orizzonte. Una figura di forza e indipendenza in cui noi tutti, forse, vorremmo rispecchiarci. E se Capri- Revolution è riuscito a raccontarci l’essenza vera della libertà, riuscire a raggiungerla resta un’arte che solo noi siamo in grado di creare. D’altronde, basta trovare la giusta ispirazione.

Il cinema come lutto iniziatico in “Capri-Revolution”

Ogni film di Martone è mosso da un trauma, una tragica morte, un lutto iniziale e iniziatico. La natura è la spettatrice privilegiata di questo terremoto interiore, nonostante si tenti di domarla e di controllarne la dirompente forza. “Tengo ’o cardillo”, risponde un uomo che viaggia con un cardellino in gabbia alla richiesta di andare a combattere in Noi credevamo (2010), l’uccello addomesticato è appartenuto alla moglie, e come nella novella di Luigi Pirandello Il gatto, un cardellino e le stelle, la personificazione di una perdita spinge il protagonista ad elevarla quale oggetto di venerazione. La difesa della Natura non è altro che guardare a un miglioramento ponendosi come parte integrante dell’insieme naturale; un altro cardellino compare nella scena finale di Capri-Revolution, e lo stesso accade ne Il giovane favoloso, Leopardi si reca da un sarto che ne tiene un esemplare sul bancone: “Il canto del vostro cardellino sembra un riso. Non è mirabile come l’uomo sappia ridere infelice com’è?”, si chiede il poeta, “Per fortuna a volte gli uomini sanno dimenticare se stessi”, gli risponde il sarto.

“Capri-Revolution” di Mario Martone a Venezia 2018

Ispirato all’esperienza della comune caprese del pittore Karl Diefenbach, Capri-Revolution mette nel titolo, accanto al nome dell’isola, un termine titanico. Non allude alla rivoluzione preparata dagli esuli russi, accolti dal medico troppo razionale per dare retta allo spiritualismo degli artisti. Non allude nemmeno alle attività della comune, sempre un po’ sospese tra sperimentalismo utile per fondare qualcosa di meno estemporaneo e pretenziose esotismmi decontestualizzati e piegati alla lettura del leader. Allude piuttosto al percorso di Lucia, in principio schietta e chiusa analfabeta, figlia del popolo e della natura, che coglie nella comune la possibilità di intraprendere un percorso di (ri)nascita personale, la presa di coscienza di un corpo che si pone in opposizione a ciò che pretende il suo mondo di appartenenza, la vocazione alla conoscenza per mezzo dell’ascolto dei sensi.

“L’amore molesto” e i fantasmi dell’identità

L’idea drammatica del film non è tanto incentrata sulla morte misteriosa di Amalia, madre di Delia magistralmente animata dallo sguardo di Angela Luce (David Donatello come miglior attrice non protagonista), quanto piuttosto sul lento riaffiorare di un vissuto rimosso della protagonista, grazie al confronto vivo e presente con il fantasma della mamma improvvisamente scomparsa. Infatti attraverso uno spazio che si fonde in maniera pregnante con la storia narrata, uno spazio che è Napoli, in quanto madre, nido originario, con i suoi vicoli intrecciati, le folle invadenti di persone, la caotica metropolitana, un simbolico ventre materno a cui Delia cerca di tornare per scoprire la sua identità, lo spettatore s’immedesima nella sua storia, pedinandola scena dopo scena alla disperata ricerca di tracce della madre, oggetti, segnali della sua presenza carnale.