Il tempo. C'è forse un tema, uno snodo teorico più centrale di questo, per chi fa cinema?
Se dovessimo rispondere basandoci solo sulla cinematografia di Nolan, l'autore che più di tutti ha assunto la riflessione sul tempo come asse portante di tutto il suo cinema, non potremmo che concludere che no, non esiste una questione più decisiva. Smembrato, ricomposto, analizzato, metaforizzato, osservato nella sua percezione psichica, attraversato nella sua dimensione fisica, insomma in un certo senso, tutto il suo cinema, da Memento, a Dunkirk, passando per Inception e Interstellar, solo per voler citare quelli in cui questo è avvenuto in modo più esplicito, è anche sempre un macro riflessione sulle possibilità che ha il cinema di raccontare il tempo e le sue tracce.
Con Tenet però, Nolan si spinge ancora oltre, arriva cioè a mostrarci simultaneamente un evento nel suo regolare scorrere del tempo e lo stesso evento, all'indietro, ovvero mostrandocelo svolgendo il suo tempo, al contrario. Una cosa complessissima da spiegare in termini scientifici, piuttosto ardua anche solo da raccontare in una recensione, ma assolutamente comprensibile, vedendola accadere nel film.
La storia è tanto semplice nella sua ossatura principale quanto assai intricata e stratificata nella sua realizzazione e converrà perciò raccontarla solo per sommi capi per non svelare troppo: un agente segreto, che conosciamo solo come “il Protagonista” (John David Washington), è chiamato ad evitare niente meno che la fine del mondo per mano di un criminale, Sator (Kenneth Branagh) in grado di usare come arma di distruzione di massa, il tempo. Lo strumento più importante che gli viene dato per affrontare questa battaglia è solo una parola, Tenet. Una parola palindroma che appartiene ad un famoso quadrato “magico”, una iscrizione latina composta da cinque parole di significato ancora oggi misterioso che possono essere lette indifferentemente da qualsiasi direzione.
Ad aiutare il Protagonista c'è, Neil (Robert Pattinson), agente segreto con aplomb tipicamente british, che sa molto più di quel che dice e rende, come si conviene al ruolo dell'aiutante, anche nelle difficoltà più estreme, tutto possibile. Una figura archetipica insomma, un po' come tutti gli altri soggetti presenti nella vicenda, quasi bidimensionale, senza un prima e un dopo da raccontare, privo di una identità ben precisa ma col compito di essere un funzionale ed efficacissimo ingranaggio affinché il percorso del protagonista possa compiersi. Unico personaggio a cui Nolan concede qualche sfumatura in più è Kat (Elizabeth Debicki), donna perennemente in cerca di libertà per lei e suo figlio, ricattata e tenuta in ostaggio da Sator.
La freddezza, tutta di facciata, e il distacco con cui il regista pare gestire e mettere in scena i personaggi della vicenda, piaccia o non piaccia (a molti non è piaciuta), è tuttavia necessaria e del tutto funzionale alla possibilità di usarli anche come pedine per un gioco cinematografico assai più ampio e articolato. Insomma, come sempre in Nolan, c'è molto di più di quel che appare: se è vero che alcuni personaggi vengono ridotti a semplici funzioni della storia, lo è altrettanto che, anche grazie a questa scelta, il regista è in grado di tracciare in filigrana una riflessione sul senso stesso del ruolo del protagonista, sulla sua capacità di prendere in mano la propria vita, di diventarne appunto Protagonista e dunque di intervenire nella storia per cambiarla. L'elemento umano, e la capacità del singolo di farsi carico di una responsabilità e di un rischio per una collettività (“perché lui può sopportarlo” diceva il commissario Gordon nel secondo Batman di Nolan) è un tratto distintivo in molte sue pellicole, ma mai lo era stato in una chiave così teorica. Un personaggio che ha nel nome il suo destino.
Anche l'essenzialità della trama non deve trarre in inganno perché attorno a questa ossatura da spy story tradizionale (usando le somiglianze con gli 007 solo come facciata depistante) e quasi convenzionale, Nolan agglutina una serie di complessissimi costrutti teorici di fisica, e spinge le possibilità del mezzo cinematografico davvero oltre i limiti del filmabile, quasi sfidandone, espandendoli, i confini e le capacità di rendere reale anche ciò che non lo è.
La smisurata e seducente ambizione del regista lo porta infatti a mettere in scena diversi eventi mostrandoceli simultaneamente, proprio come fossimo davanti ad una parola palindroma, nelle due direzioni di svolgimento, in avanti e indietro, trasformando le già articolate e numerosissime scene d'azione in vere e proprie esperienze visive.
Naturalmente non tutto risulta subito comprensibile (ma poi perché dovrebbe?), men che meno ad una sola visione, ma questo non rende affatto ostica la fruizione del film e nemmeno la possibilità di goderne. Il regista, da sempre abituato a muoversi in un calcolatissimo equilibrio fra grande intrattenimento popolare e cinema d'autore, costruisce infatti una macchina spettacolare senza precedenti davanti alla quale ci viene richiesto (in modo piuttosto esplicito durante il film) di non sforzarci troppo di capire ma di provare a sentire: una dichiarazione che tra l'altro, almeno per chi scrive, potrebbe essere una ottima risposta anche a quanti accusano il suo cinema di essere troppo cerebrale.
Sentire, ovvero lasciarsi andare alla gioia e alla libertà della visione, una visione il più possibile analogica, quasi tattile, sensoriale, che richiede fiducia assoluta, sia verso chi ha progettato lo spettacolo e sia nel mezzo che ha utilizzato per mostrarcelo. In fondo, capire davvero è un problema assai poco importante (e la trottola è ancora lì che gira per ricordarcelo) e non ci può essere prestigio, senza fiducia e abbandono alla gioia dell'inganno sensoriale. Per riuscire nel suo intento Nolan qui si affida ad almeno tre alleati fondamentali.
Il primo è Ludwig Göransson, compositore svedese che unendo partiture orchestrali a suggestioni elettroniche, costruisce un impianto sonoro frastornate e di sconvolgente impatto immersivo per il pubblico. Il secondo alleato è Jennifer Lame, montatrice fidata di Noah Baumbach che qui, con un lavoro prodigioso, si ritaglia un ruolo di primo piano, in una pellicola che ha nel concetto stesso di montaggio uno dei nodi nevralgici del suo sviluppo anche teorico. Il terzo, già suo collaboratore in Interstellar e Dunkirk, è lo straordinario direttore della fotografia Hoyte van Hoytema, capace di lavorare con grande perizia sulle scene più scure, quelle che disfano la luce nell'ombra, in un buio non ancora totale (le situazioni tipiche del crepuscolo per intenderci, un termine che non a caso ritorna), che tanto piacciono al regista. Un lavoro da farsi rigorosamente in pellicola, per lo più nel gigantesco formato 70mm Imax, quasi che riuscire a conservare un rapporto analogico con la realtà che si sta mettendo in scena, sia questione consustanziale alla stessa idea di cinema che il regista cerca di portare avanti.
Siamo di fronte insomma ad un film che si presta, ormai lo si sarà capito, a molteplici e stratificate letture, che può essere visto e goduto in modi assai differenti e che richiede senza dubbio una visione in sala per poter essere apprezzato pienamente. Dunque è forse questo il migliore dei film possibili per tornare a sedersi in un cinema dopo la chiusura forzata di questi mesi, una condizione che ci ha avvicinato inevitabilmente sempre più agli schermi domestici e portatili: per qualcuno un processo irreversibile che era già in atto da un po' e che porterà a visioni sempre più casalinghe e meno condivise, là dove lo streaming e le piattaforme digitali, andranno a soppiantare, presto o tardi, la luce che inonda lo schermo buio di una sala cinematografica. Profezia a cui Nolan, e noi con lui (non senza un briciolo di romanticismo) scegliamo di non credere.
“Infuria, infuria contro il morire della luce”.