Film come La battaglia di Kawanakajima (1941) e Il bonzo mago (1963) testimoniano come Teinosuke Kinugasa sia stato un autore capace di giocare con la storia del Giappone. Il primo caso rappresenta una vera e propria acrobazia artistico-diplomatica per l’autore, che accoglie la richiesta governativa di opere a carattere storico 'più serie' dei popolari chambara del periodo, mettendo in scena la quarta battaglia di Kawanakajima (1561), una delle più famose e sanguinose dell’epoca Sengoku - la stessa in cui sono ambientati ad esempio Kagemusha e il recentissimo Kubi. L’azione militare non viene però mai raccontata con entusiasmo o patriottismo. Il materiale narrativo non sarebbe mancato, come la carica del samurai Yamamoto Kansuke, ma a questo e altri esempi di eroismo Kinugasa antepone le vicende dei fanti, dei responsabili agli approvigionamenti, mostrando solo negli ultimi minuti la nefasta battaglia.

Un film freddo e solenne, poco emotivo, che umanizza la vita militare più che esaltarla, benchè sarebbe stato lecito aspettarselo, visto il frenetico espansionismo dell’impero giapponese. Le battaglie di Kawanakajima si svolsero fra due clan feudali rivali, quindi entrambi gli schieramenti erano composti interamente da giapponesi, e probabilmente si deve a ciò il clima di rispetto che intercorre fra superiori e subalterni, perfino fra nemici. Gran parte del film è poi dedicato alla preparazione strategica dei due eserciti – una pagina di storia nota e approfondita a partire dal celebre documento Koyo Gunkan – come a voler sottolineare l’acume e l’efficienza delle parti in campo, più che la loro potenza di fuoco. Queste battagie avevano dunque ben poco in comune con le campagne militari in Manciuria, Shangai, Indocina o Thailandia del Ventesimo secolo.

Kinugasa dirige un’opera cauta: da un lato mette comunque in scena una pagina importante della gloriosa storia militare giapponese esaltandone la componente umana, con una realismo documentario scevro da fanatismi ideologici. Dall’altro evita scomodi riferimenti all’attualità e può quindi mostrare liberamente la vacuità della guerra – a Kawanakajima non prevalse nessuno dei due eserciti – e la conseguente ecatombe. La portata acrobatica di questa scelta va considerata a partire dalla triste storia della stringente regolamentazione cinematografica giapponese – in essere fino al 1945 per essere rimpiazzata da quella omologa statunitense – che costrinse ad esempio i coreani a dover rinnegare la propria lingua o il regista Sadao Yamanaka a morire al fronte per aver realizzato un’opera eversiva.

In tutt’altro contesto si colloca Il bonzo mago, realizzato in anni certamente più permissivi e ambientato nell’epoca Nara (VIII secolo d.C.), un periodo caratterizzato da cambiementi culturali più che da spargimenti di sangue – tolte due rivolte da parte del clan Fujiwara, entrambe rapidamente sedate. Come aveva già fatto in Daibutsu kaigen [Consacrazione al grande Buddha, 1952], Kinugasa elabora un melodramma romantico partendo da un fatto di cronaca e lo inserisce nel contesto della transizione al buddhismo voluto dalla corte imperiale, affascinata dalla coeva cultura cinese. Il bonzo mago origina da una malevola diceria secondo cui l’imperatrice avrebbe avuto una relazione con il monaco guaritore Dokyo, dopo che questi l’aveva curata dalla malattia che l’aveva inizialmente costretta ad abdicare. I riferimenti storici sono ridotti al minimo per lasciare il posto ai suggestivi poteri del monaco/mistico, capace perfino di invocare l’intervento ultraterreno di Kannon Bosatsu. Dal momento della guarigione la tragedia romantica prende il sopravvento, in un turbinio di passioni trattenute, intrighi di corte e vacillare della fede degni delle pagine di Yukio Mishima. La regia tende alla staticità e alla composizione simmetrica, lasciando il movimento carezzevole degli oggetti di scena – foglie, carta, drappi – come commento dell’amore negato fra i due protagonisti.