L’ultima volta che Stanley Donen si è messo dietro la macchina da presa fu per un tv movie di venti anni fa. Si chiamava Love Letters, mélo epistolare sull’amore tra un politico e la sua amante. Gli sarebbe piaciuto tornare al cinema con questa storia, ma dovette ripiegare sul piccolo schermo per ragioni economiche. E così il film con cui Donen ha detto addio alla sala cinematografica è stato il discutibile Quel giorno a Rio. Sono trascorsi cinquantacinque anni da allora; ed ora che l’ultimo regista sopravvissuto della Hollywood classica è uscito di scena per sempre, alla bella età di novantaquattro anni, ci si chiede perché non gli sia stata concessa l’occasione di un più rispettabile commiato. Vano, infatti, è stato anche il recente tentativo di portare in scena una sceneggiatura scritta con la sua compagna, la magnifica Elaine May.
Benché talvolta trascurato per memoria corta o consuetudine all’oblio, in realtà la comunità del cinema non ha mai dimenticato Donen, proiettando i suoi film a festival e rassegne con regolarità e onorando il suo immenso magistero. La Mostra di Venezia lo premiò nel 2004 per aver contribuito a “ridefinire la modernità”. Per colmare una vergognosa lacuna (quante nomination agli Oscar ha ricevuto in carriera? Zero), l’Academy gli assegnò il riconoscimento alla carriera nel 1997, patrocinato da Martin Scorsese, suo appassionato fan. Il vispo maestro ringraziò tutti canticchiando uno scherzoso adattamento di Cheek to Cheek e accennando qualche passo di tip tap. Senza dubbio una delle più memorabili premiazioni di sempre, non tanto per la pur calorosa ovazione del pubblico, quanto perché Donen – da grande regista qual era nonostante l’inattività – mise in scena un numero in cui batteva il cuore del suo cinema: un mondo in cui c’è assoluta continuità tra realtà e finzione, attraverso una sospensione della credenza che si propone sia come discorso dello e sullo spettacolo sia sul reale e la sua rappresentazione.
Ogni cosa è già chiara sin dall’esordio, Un giorno in città, diretto assieme alla star Gene Kelly: sullo sfondo di uno scenario metropolitano, la messinscena irrompe dentro la messinscena. E poi esplode in Cantando sotto la pioggia (girato, ancora con Kelly, a ventotto anni!), un capolavoro incomparabile che il tempo mai scalfirà. Dentro vi si trova tutto: la celebrazione dello spettacolo, l’ideologia dell’intrattenimento, il conflitto tra cultura alta e cultura bassa, l’opposizione tra muto e sonoro, la realtà che si fa spettacolo, la filosofia della falsificazione, l’ammiccamento al nonsense, il non-realismo che finisce per esaltare la verità della performance, il mito americano, il senso della fine. Un trionfo di momenti leggendari, dal mitico Kelly che canta e balla sotto la pioggia alla dichiarazione d’amore naturalmente possibile solo su un set, ma anche una parata nostalgica, il racconto di uno spettacolo in fieri, un sogno che semina il germe dell’incubo.
Con Vincente Minnelli, l’ex coreografo Donen è il campione del musical della sua stagione: pensiamo all’ormai classico Sette spose per sette fratelli, un’evasione campestre, esaltazione rurale che celebra la giovinezza, l’amore, il disimpegno, la gioviale trivialità; a È sempre bel tempo, estremo incontro con Kelly e conclusione del rapporto con la MGM, che, nonostante il rassicurante titolo, trabocca di pessimismo ed amarezza con lo sconforto nel cuore; a Cenerentola a Parigi, ancora un incontro tra due mondi ovvero l’America e la Parigi vista dagli americani, l’avanguardia artistica e lo spettacolo classico, l’anziano Fred Astaire e la giovane Audrey Hepburn.
Pur tornando più tardi al musical con Il piccolo principe, Donen passa poi a commedie spesso leggibili come musical senza canzoni, tra René Clair e Ernst Lubitish, lavorando con attori in grado di cogliere lo spirito musicale di una regia d’innata leggerezza (Hepburn, Cary Grant, Ingrid Bergman, Deborah Kerr, Sophia Loren, Gregory Peck): dal meraviglioso Indiscreto, maliziosa danza degli sguardi d’innata eleganza, al travolgente Sciarada, sapiente gioco hitchcockiano, passando per le buffe e raffinate triangolazioni de L’erba del vicino è sempre più verde fino a Due per la strada, un amore da ricostruire attraverso un folgorante montaggio non lineare. Magari può sembrare un pensiero suggestionato dall’emozione, ma davvero Donen ci ha insegnato che cos’è il cinema. O perlomeno ci ha insegnato ad amarlo.