Il 15 ottobre 1940 a New York si tenne la prima mondiale de Il grande dittatore e Charlie Chaplin conosceva già il rischio di non poterlo vedere distribuito nella maggior parte dei mercati europei, ma il suo progetto era appunto Grande e sfidava, apertamente e senza alcun timore, i regimi totalitari e le dittature.

Charlot, nei panni di un barbiere sognatore, tiene a braccetto l’amata Hannah vestita a festa. Emozionati passeggiano insieme, è il loro primo appuntamento. Mentre sorridono felici anche il mondo intorno a loro sembra essere allegro, altre coppie camminano per le strade ora popolate e vive, i bambini giocano e alcuni osservano il via vai dalla finestra salutando gli amici. Il barbiere vorrebbe comprare due spille ritraenti l’uomo che, fino a poco prima, li aveva fatti tremare, ma che ora sembra non essere più interessato ad affliggerli. Perché dovrebbero essere perseguitati? È quello che non riesce a comprendere nemmeno il barbiere. Infatti egli, rifiutandosi di lasciare sulla sua vetrina la scritta Jew (ebreo), ha litigato, giusto qualche tempo prima, con le “camicie grigie” finendo quasi appeso ad uno dei lampioni di quella stessa strada dove ora passeggia come aveva sempre fatto prima della salita al potere del dittatore Adenoid Hynkel.

Qualcosa cambia. La voce gutturale di Hynkel improvvisamente tuona per la via e i suoni metallici provenienti dagli altoparlanti irrompono nella serenità illusoria descritta poco più sopra. Come un uragano quel timbro furente spazza via tutte le persone nuovamente terrorizzate. Così finisce la passeggiata del barbiere e di Hannah, mentre corrono alla ricerca di un rifugio. Il dittatore capriccioso ha ripreso a esercitare il suo potere, ma ora lo fa con più ferocia e Chaplin ancora non poteva immaginare la brutalità delle persone su cui stava satireggiando. Garbisch, il consigliere di Hinkel, ritrae l’altro protagonista e stratega della propaganda nazista: Joseph Goebbels. Ne Il grande dittatore durante la sequenza in cui Hinkel ordina con totale noncuranza la fucilazione degli operai in rivolta, la sceneggiatura sottolinea il potere di coercizione e quindi la violenza repressiva attuata dal regime. Chaplin costruisce e al contempo desacralizza un mito attorno al dittatore isterico di cui veste i panni. Trasforma i simboli dell’ideologia nazista, svuotandoli del loro contenuto iniziale per fargli assumere una carica puramente satirica che rimanda al suo stesso personaggio.

Hinkel/Chaplin dà quindi vita alla mercificazione di oggetti che servono alla promozione del film, dagli striscioni con la (finta) svastica ai cartonati dei dittatori a grandezza reale, ma la vita distributiva de Il grande dittatore non fu ovviamente facile. Per quanto riguarda il caso italiano, durante il fascismo il film venne proibito dal MinCulPop che ordinò di “ignorare la pellicola propagandistica dell’ebreo Chaplin”. Infatti Il grande dittatore debuttò, nella sua versione integrale, sugli schermi italiani quattro anni dopo, a Roma nell’ottobre del 1944, e rimase in programmazione per un lungo periodo in diverse città d’Italia. “Giunse nell’immediato dopoguerra; ma su un pubblico che aveva assistito alle successive tappe di quella follia, che aveva sofferto sulle proprie carni e sul proprio spirito i disastri della guerra e della sconfitta, che aveva saputo dei forni crematori, il film apparve inadeguato, un riflesso troppo pallido della realtà”, così scrive Ugo Casiraghi nell’ottobre del 1960 su l’Unità. Casiraghi ne scrive perché era da poco riapparso Il grande dittatore all’interno della sezione culturale della Mostra del Cinema di Venezia. Ma il film era stato massacrato dall’ufficio della censura, che tagliò le scene in cui era presente la moglie di Bonito Napoloni per non urtare l’animo di donna Rachele ancora in vita. Questo atto suscitò un forte dibattito che vedeva alcuni critici cinematografici schierarsi dietro barricate di carta contro l’ennesimo atto censorio, perpetrato nei confronti di un'opera magistrale non inedita, che veniva mostrata all’interno dell’ambiente festivaliero: “Che un monumento di questo genere alla dignità dell’uomo stia per essere tra poco ripresentato in Italia è una cosa che ci riempie di emozione. Ma che esso debba assolutamente uscire con i tagli imposti dalla nostra censura, in omaggio al neofascismo, è una cosa che ci riempie di furore” (U. Casiraghi). 

Ecco perché questo film di Chaplin è tra i suoi capolavori più tragici e contrariamente a quanto scrive Woody Allen, non è che Il grande dittatore non faccia più ridere, non ha mai fatto davvero ridere. È come se si ridesse in Borat - Seguito di film cinema durante la canzone alla protesta anti-lockdown, quella in cui le persone sostengono allegramente Borat mentre declama il suo odio per Obama e Fauci, auspicandone la morte. Certo entrambi i film di tanto in tanto strappano qualche sorriso e qualche risatina innocua, come quando il barbiere/Chaplin è in fuga sui tetti e lascia cadere le valigie o quando Hinkel gioca con il mappamondo. Non sono però film che vogliono provocare costantemente la risata. Piuttoso, sono costruiti sull’umorismo di cui scrive anche Pirandello ovvero quello che scaturisce dal compatimento delle debolezze altrui che sono anche le proprie. Così si spiega ancora oggi il discorso finale. Un discorso scritto da un essere umano nei confronti di altri esseri umani: quando il “folle” si libera della maschera può essere autentico. Essendo Chaplin ottimista nei confronti del genere umano, quel discorso è strutturato come un elogio, ancora oggi valido, agli ideali di umanità, libertà, al ripudio delle dittature, del razzismo e della violenza: “Non cedete a dei bruti, uomini che vi disprezzano e vi sfruttano, che vi dicono come vivere, cosa fare, cosa dire, cosa pensare, che vi irreggimentano, vi condizionano, vi trattano come bestie”.