“Strage e malinconia” ripete il padre di Marcello Clerici, in una delle prime scene de Il conformista, appena prima di venire legato nuovamente a una camicia di forza. Strage e malinconia. Camicia di forza, pazzia e paranoia. Un lascito del suo passato, ma anche un monito per il breve futuro del figlio. Introduzione, prologo ed epilogo della storia di un tormentato burocrate italiano negli anni 30 che si offre volontario alla polizia fascista per l’omicidio, a Parigi, di un rifugiato antifascista.

Uscito nel 1970, nello stesso anno di Strategia del ragno, Il conformista segna il periodo più politico di Bernardo Bertolucci, a cui seguirà la fase di successo critico e commerciale con Ultimo tango a Parigi. Non solo periodo più politico, ma anche quello più sperimentale, intellettuale e psicanalitico. È chiarissimo se lo si mette in relazione proprio con il “coetaneo” Strategia del ragno che, in quest’ottica, si dimostra in tutto e per tutto un film-specchio.

Geograficamente distanti (uno a Parigi, nel centro d’Europa, l’antro a Tara, un piccolo paesino di finzione nella provincia di Parma), ma entrambe opere labirintiche senza una vera e propria via di fuga, entrambe incentrate sulla ricerca di un padre (o di una figura paterna) che si fonde a una ricerca di sé (tematica dominante nei primi film di Bertolucci), entrambe ossessionate con il ripercorrere un passato nazionale fascista fatto di vergogne, bugie, messe in scena e ambiguità.

Proprio attorno a questa ambiguità gioca tutto il capolavoro di Bertolucci. Quando Marcello Clerici (interpretato dal compianto Jean-Louis Trintignant, definita da lui stesso una delle sue migliori interpretazioni, per non dire la migliore) prende in mano la pistola consegnatagli insieme all’incarico di omicidio, la impugna puntandola schizofrenicamente all’incaricante, poi al lato opposto, poi ancora a se stesso. Il suo conformismo occulta il disordine, ma la contraddizione fuoriesce nelle sue incoerenze.

Marcello usa l’ordine come strumento per reprimere la sua omosessualità, la solitudine (messa in crisi in certi momenti da bagni di folla) come lieve arma di autorità. I grigi ideologici del protagonista, le ambiguità politiche, si contrappongono a luci nette (inizio del sodalizio con Vittorio Storaro alla fotografia), che spezzano, tagliano, illuminano o oscurano. Fasci di luce ordinati, uguali, squadrano i volti, i corpi conformi.

Ma, ancora, ne Il conformista il conformismo viene “de-conformato”, la struttura lineare del romanzo di Alberto Moravia (da cui è tratto il film) viene riadattata in flashback; la regia di Bertolucci, tra una carrellata e l’altra, si fa obliqua, decentrata e piena di vuoti. La struttura è labirintica, l’apparato psicanalitico, il mito della grotta di Platone allucinato. Infine la storia occultata, i peccati commessi (“tutti” dice Marcello a un prete in confessionale) affibbiati, il passato tradito, se stessi rinnegati. Un capitolo intero della storia di un paese attuato con ferocia e disconosciuto con immediatezza.

Strage e malinconia. Conformismo e pazzia.