Per cercare di introdurre meglio Blade Runner 2049 forse bisogna partire proprio dagli elementi da cui si discosta e abilmente si intreccia, nel corso della trama, rispetto a quelli del primo. Se infatti nel cult movie anni ottanta la tematica prevalente è quella della netta distinzione tra ciò che è reale e ciò che è stato creato industrialmente, nel sequel non è così. Si perde quindi l’importanza del discernere e non si vuole rispondere alla significante, ma in fondo futile domanda: “Deckard era un replicante?”. La domanda a cui invece, con tempi lunghi, si accinge a rispondere è: “che cosa è successo a Deckard e a Rachael dopo la chiusura dell’ascensore?”.

Il Blade Runner 2049 del noto regista Denis Villeneuve si articola intorno al personaggio dell’agente K e alla sua fatidica sorte, interpretato da Ryan Gosling.  Dalla sceneggiatura, scritta da Hampton Fancher e Michael Green, composta su dialoghi rigonfi, personaggi appena accennati, ma con un pathos all’apice nella terza e finale parte del film, che fa dimenticare il resto, si intravede una sorta di ottimismo per il futuro che nel primo film era invece negata.

La rivoluzione che i replicanti, ancora schiavi, si accingono a preparare, il miracolo su cui si regge la trama e i nuovi progressi scientifici come l’ologramma Joy (capace di affezionarsi e forse anche dotata di una sorta di senso tattile) sono elementi che insieme arricchiscono il genere fantascientifico e che quindi fanno sì che il film non precipiti in territori già esaustivamente esplorati.

Dal primo film riporta alcune ambientazioni, accenni di dialogo e qualche apparizione di vecchi personaggi, ma solo con spirito evocatore e reverenziale poiché rimuove molti dei dettagli e degli elementi che costellavano gli spazi nelle inquadrature del primo film. Villeneuve preferisce infatti una via più minimalista, spoglia e arida, riprendendo attraverso le scenografie anche l’arte contemporanea dei corpi statuari e giganti della corrente iperrealista che va da circa gli anni novanta e prosegue fino ad oggi.

L’agente K, ostinato come un toro, nella ricerca sulle verità delle sue memorie e della sua esistenza ritrova l’ispettore Deckard - un Harrison Ford un po’ invecchiato, ma ancora lucido e decisamente meno rigido e cinico - in un luogo desertico dimenticato dal mondo, in cui uno dei maggiori simboli di vita le api, sono lavoratrici instancabili nonostante quella che sembra essere una perdurante tempesta di sabbia dai toni caldi: dovuti alla fotografia di Roger Deakins che non si sbilancia in luci a neon anni ottanta, ma insiste ovviamente sui toni grigi dei bassifondi di Los Angeles e ambientazioni notturne. I fattori e gli indizi che l’agente K trova sul suo cammino fanno sì che egli diventi una sorta di eroe (al contrario di Deckard che era più un antieroe) pronto a sacrificare sé stesso, il suo dolore e i suoi sentimenti per l’avanzata dei superuomini: che, lasciando ulteriori punti interrogativi, fanno prevedere la possibilità di un prossimo capitolo.