Con Giulio Andreotti. Il cinema visto da vicino (2014) e Giulio Andreotti. La politica del cinema (2015), Tatti Sanguineti alterna il girato della più lunga intervista mai rilasciata dal politico democristiano con una minuziosa indagine d’archivio per ricostruire l’operato di Andreotti dal 1947 al 1953 come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo spettacolo. La narrazione si struttura attraverso la figura dell’antitesi, del doppio, di luci ed ombre, del tentativo di dare slancio alla produzione italiana e, al tempo stesso, di controllarla e ricondurla alle politiche culturali democristiane e della Guerra Fredda. Ripercorriamo dunque il doppio lavoro di Sanguineti. 

La volontà è quella di problematizzare l’identificazione di Andreotti semplicemente con l’attacco ad Umberto D. (1952) e la celebre frase dei “panni sporchi” italiani che il film di De Sica e il Neorealismo in generale avrebbero mostrato all’estero con danno all’immagine nazionale. I due documentari mostrano infatti un Andreotti intento a rivitalizzare il cinema italiano nel dopoguerra, attraverso la riapertura di Cinecittà, il salvataggio dell’Istituto Luce e la legge sul cinema del 1949 che prevedeva contributi e riserve di giornate di programmazione per i film italiani. Costretto talvolta al compromesso – una parola che ne caratterizza tutta l’esperienza politica – con figure del decaduto regime fascista, Andreotti riesce comunque a cambiare la percezione che il cinema fosse qualcosa che apparteneva al vecchio regime, un’esperienza culturale finita di cui l’Italia libera non doveva più occuparsi.

Tuttavia, Sanguineti non taglia il ruolo di censore di Andreotti, una parte che lo stesso politico non rinnega e, anzi, interpreta con fierezza come per Umberto D., convinto ancora dopo 60 anni, della necessità del suo intervento contro il film. Carte alla mano, Sanguineti ricorda ad Andreotti anche episodi meno conosciuti: la censura de Il diavolo in corpo (1947) di Autant-Lara o l’intervento sul girato di Totò e i re di Roma (1951) in cui l’associazione tra “pachiderma” e De Gasperi si legge sul labiale di Totò mentre una voce malamente sovrapposta a quella dell’attore pronuncia invece il nome di Bartali. Ancora più problematica la censura de I fatti di Modena (1950) di Carlo Lizzani che sbugiarda la versione ufficiale sull’uccisione di sei operai da parte della polizia durante lo sciopero del 9 gennaio 1950.

I due documentari hanno una struttura ad episodi dalla durata diversa ma sempre con il politico democristiano come protagonista, richiamando la forma dei film ad episodi della commedia all’italiana. All’interesse per l’operato di responsabile del cinema italiano, Sanguineti coniuga infatti anche l’attenzione all’immagine del divo Giulio. Dalla citazione del giudizio negativo sul Neorealismo in C’eravamo tanto amati (1974) alle imitazioni di Alighiero Noschese, dalla firma sul gesso di una delle attrici de Il Sorpasso (1962) alla partecipazione personale a Il Tassinaro (1983), l’immagine del politico è entrata nella cultura popolare italiana con il suo stesso placet: “la cosa peggiore per un politico è quella di essere ignorato”. Andreotti aveva dimostrato di essere particolarmente attento ai riflessi mediatici del suo lavoro: “non si dica che la censura è bigotta”, scriveva nei suoi appunti da sottosegretario.

Come il protagonista de Il Dottor Jekyll e Mr. Hyde (1931), uno dei suoi preferiti, anche al cinema, Andreotti rimane in bilico tra luci ed ombre, divo e Belzebù. Quando parla di Pisciotta e di “quelli che come arma letale hanno avuto il caffè”, di Marilyn “che non è certo morta di vecchiaia” o dello stesso Noschese, morto nella clinica dove era ricoverato anche il politico, emerge la sua dimensione più inquietante, catturata così bene nell’incipit de Il divo (2008): “mi pronosticavano la fine, io sopravvivevo, sono morti loro”.