Si intitola La mia famiglia a colori il documentario che il quindicenne Leone sta realizzando insieme al suo amico Jacopo come saggio finale del corso di videomaking del liceo. Il soggetto del video è la sua famiglia omo-genitoriale: un figlio e due papà in un’Italia che lentamente avanza verso il progresso civile e verso l’acquisizione dei diritti da parte delle coppie LGBT. Ora, dopo la tanto attesa unione civile, per Paolo e Simone (Filippo Timi e Francesco Scianna) si apre finalmente la possibilità di veder riconosciuto ufficialmente il loro ruolo nella vita del ragazzo: il sindaco di Fiumicino ha deciso infatti di trascrivere il certificato di nascita americano di Leone, che riporta entrambi come suoi genitori.

È sull’avvertimento che “questo certificato potrebbe essere annullato” che Marco Simon Puccioni prende il testimone da Leone e inizia a raccontare la quotidianità di quella famiglia dall’esterno, facendo compiere a Il filo invisibile un salto di genere: da documentario a film di finzione. Che però poi tanto “di finzione” non è, visto che questo film è il terzo capitolo di un progetto decennale intitolato My Journey to Meet You, che il regista sta portando avanti basandosi sulla propria esperienza personale allo scopo di far conoscere al grande pubblico la realtà delle famiglie non tradizionali e le difficoltà che queste devono affrontare per vedere riconosciuti i loro diritti.

L’insegnante di Leone lo afferma chiaramente: “Il privato è il pubblico. Partire dall’esperienza personale è il modo giusto per raccontare qualsiasi argomento”. Preceduto da Prima di tutto (2012) – ampliamento e riorganizzazione del materiale raccolto in un work in progress destinato alla TV intitolato Tutto il resto è nulla – e da TuttInsieme (2019), ecco dopo un breve passaggio in sala approdare su Netflix (product placement alert!) quest’ultimo capitolo, che compie un significativo passo avanti, temporale ma anche stilistico, rispetto agli altri due.

Nei film precedenti del progetto, Puccioni narrava in stile documentaristico dapprima il desiderio di paternità suo e del suo compagno, seguendo il difficile cammino che li ha condotti alla creazione della loro famiglia attraverso il ricorso alla “Gestazione Per Altri”, e poi la quotidianità di questa famiglia composta da due padri e due figli nati in California nel 2009 con l‘aiuto delle mamme Cynthia (donatrice degli ovuli) e Amanda (l’effettiva gestatrice). Il filo invisibile si configura idealmente come seguito di TuttInsieme, dove la condensazione dei due gemelli nella figura di Leone permette la creazione di un personaggio al quale il regista può delegare la narrazione della vita familiare in una modalità che sia al contempo esterna ed interna.

Con questo film Puccioni innesta il linguaggio della finzione in un percorso documentaristico, forse per prendere le distanze dall’elaborazione creativa di un soggetto troppo personale, sicuramente per ampliare l’ideale pubblico di un discorso che prima di essere narrativo è fondamentalmente sociale e politico. Ecco allora la drammatizzazione (il tradimento, la crisi di coppia, l’assunzione delle proprie responsabilità verso il partner e verso il figlio) per sostenere un’idea tanto semplice quanto ancora rivoluzionaria: le famiglie arcobaleno sono esattamente come le famiglie tradizionali tanto nell’armonia quanto nella disarmonia.

Pur perseguendo questo lodevolissimo scopo e confermandosi capace di manovrare gli strumenti della narrazione filmica anche fuori dal registro documentaristico (interessante il cambio di stile dal documentario di Leone al racconto principale, che mantiene alcuni elementi che identificano il punto di vista del narratore con quello del ragazzo, come la visualizzazione dei messaggi di WhatsApp), Puccioni cade talvolta nel didascalismo e suona paradossalmente anacronistico rispetto a una società che progredisce più veloce di quanto siamo forse consapevoli: che il figlio di una coppia gay della capitale possa ancora venir considerato omosessuale dai coetanei pare irrealistico, ma le infelici battute che sottolineano questa arretratezza culturale lo sembrano ancora di più.

Sebbene il film non riesca talvolta ad allontanarsi troppo da certi stereotipi e nonostante qualche pecca di sceneggiatura (la ricerca del dramma a tutti i costi appare a più riprese involontariamente preannunciata e quindi inficiata nelle sue potenzialità, mentre funziona quando è esplicitamente richiesta dai personaggi stessi, come quando Jacopo esclama: “Manca un bel colpo di scena!”), vanno lodate la colonna sonora perfettamente calzante e la freschezza interpretativa di Francesco Gheghi nei panni del protagonista e di Emanuele Maria di Stefano in quelli di Jacopo, felici contraltari di alcuni eccessi sull’orlo del macchiettismo da parte di Timi e Scianna.

Dopo una narrazione che per anni ha (giustamente) mirato a mostrare il diritto alla felicità e al riconoscimento delle coppie omosessuali e della normalità di tutti i tipi di famiglia, è finalmente giunto il momento di rivendicare la parità anche nella difficoltà, nella sofferenza, nella separazione. Perché anche una famiglia omo-genitoriale può scoppiare, ma l’amore rimane per sempre.