Joker è un personaggio letterario a tutto tondo, espressione della flânerie convulsiva che trapassa, dall’estetica anni Ottanta, nella nostra allucinata società di massa attraverso uno shock epifanico: la detonazione di un’arma da fuoco. Solo dopo aver accidentalmente sparato, nel grigiore indistinto della sua abitazione, Arthur Fleck può dare inizio alla catabasi che lo porterà a diventare un efferato criminale: il Joker, non uno dei tanti reietti votati al crimine nella città del peccato. Prima era solo un anonimo uomo della folla, dopo, rovescia lentamente la sua tragedia in (stand up) comedy, brillantemente chiusa con l’omicidio del “re per una notte”: vendetta è fatta.
Se la facilità con cui il “disarticolato” personaggio della Dc trova e maneggia l’oggetto di morte ci rimanda sin da subito al parallelismo Trump/Wayne, più sottile e graduale è la sua metamorfosi nell’uomo che incarna la feroce hybris contro la società dell’emarginazione. Dopo aver conquistato il palco e la scena, riesce a esistere, per se stesso, per gli altri, per manomettere la normalità alto-borghese e non ha più bisogno dei suggestivi biglietti per spiegare a chi entra in contatto con lui la propria condizione di buffone patologico. Del resto, il comico, soprattutto quello letale, è tragedia nel tempo e, come Rabelais per i suoi contemporanei fu un “joker” grossolano, anche il saltimbanco di Phillips diventa un prodotto della società in cui vive, degradandosi fino alla più totale delle aberrazioni.
Le asperità del corpo aguzzo e l’abiezione dello spirito sono i tratti salienti di una graduale involuzione dell’outsider, autoindotta e alimentata dalle situazioni vissute ma, alla base del suo malessere, esiste comunque uno stato di malattia, un delirio patologico che lo spinge, come l’uomo della folla di Poe, a seguire i tanti soggetti di studio che affollano la sua mente – la vicina di casa, il presentatore televisivo, Thomas Wayne, il passato oscuro della madre – fino a diventare icona delle masse rivoltose, simbolo plastico del male di vivere. Come in un sonetto di Baudelaire, le apparizioni brutali in una metropoli fatiscente inducono gli shock a getto continuo nel soggetto debole, recano in sé i germi di un cataclisma sociale, accentuano le convulsioni di un corpo che non conosce stasi. Tanto simile alla nostra, la Gotham anni Ottanta rimanda al primo lascito della modernità, alle prime comunità dell’ “urto”, della frizione a tutti i costi contro i benpensanti dell’epoca, gli avvocati di alto rango, gli usurai e gli speculatori.
Il passeggiatore folle del film ha bisogno di spazio e di ascolto – adattissima la grandezza estatica del formato in 70mm – mentre vaga nevroticamente per trovare un senso. Dal secondo shock – l’incontro dietro il cancello di casa Wayne con il magnate, speculare al flâneur di Poe che sbircia dai vetri del locale – produce l’alienazione che conduce il folle dal semplice sguardo ad un’azione di forza che paralizza e inchioda la coscienza collettiva. Il simbolo si è incarnato, ha un costume che lo connota inesorabilmente e il suo riso, da isterismo patologico, si tramuta in una risata che, come quella agghiacciante di Melmoth l’errante, proietta il suo malcelato orgoglio per le strade infette di Gotham.