In un’ottica attualissima di sostenibilità visiva, le “3 R” del credo ambientalista - recycle, reduce, reuse - possono ben adattarsi all’operazione svolta da chi si appropria, per declinarlo all’interno dei suoi lavori, del materiale d’archivio (mare magnum che può comprendere pellicole del muto, frammenti, documentari, notiziari, filmati di repertorio, scarti di lavorazione, riprese amatoriali, film di famiglia..). In un mondo pervaso e permeato di immagini il riutilizzo filmico da parte di cineasti, documentaristi o semplici entusiasti, pare conciliarsi perfettamente con l’idea che il recuperato, il minimalismo e la seconda (o più) mano debbano essere necessariamente adottati quali stili di vita. L’abbandonato, lo scarto, e il rinvenuto non sono spazzatura bensì fonte potenzialmente inesauribile di ricontestualizzazione. Marco Bertozzi la chiama decrescita iconica: e quale miglior linguaggio di quello cinematografico - con la sua polisemia, la sua trasferibilità, la sua interpretabilità - può dare luogo ad infinite possibilità di ricollocamento (di valore, di messaggio, di paradigma)?

Tra i grandi generi d’archivio, riveste un’importanza centrale il cinema di famiglia. Dagli anni Venti, con la diffusione sul mercato delle pellicole cinematografiche di formato substandard, prende avvio - senza conoscere crisi né di evoluzione tecnica né di fascinazione - la produzione amatoriale. In mano agli inesperti, l’irrilevante e l’effimero acquistano valore, il campo del registrabile accresce il proprio raggio d’azione e incomincia a delinearsi un immaginario di occasioni sociali (certamente mutuate da “mamma fotografia” - si faccia riferimento, su tutti, allo studio condotto da Pierre Bourdieu) che sfocerà in vere e proprie sottocategorie: “Le vacanze”, “Il matrimonio”, “Il lavoro” ecc.

È tuttavia solo a partire dalla fine degli anni Settanta che gli archivi in Europa procedono con la raccolta e la conservazione degli home movies. Bisognerà attendere un decennio, inoltre, affinché anche il mondo accademico e dei professionisti prenda in carico, consapevolmente, il corpus del cinema dilettantesco.

La particolarità dei “film cercati”, come li definiscono Paolo Simoni e Gianmarco Torri in Quel che brucia (non) ritorna, “a causa del lungo processo di scavo e di indagine necessario a farli emergere dall’oblio” risiede nella carica emotiva e personale che essi portano con sé. Una specifica è d’obbligo: si terrà fede alla distinzione approntata da Roger Odin tra film de famille (su cui qui si porrà l’accento) in contrapposizione al film amatoriale e sperimentale, il primo consumato all’interno dell’abitazione, il secondo dall’eventuale sfocio all’interno di circoli associativi e festival dedicati. Le bobine di famiglia infatti riguardano la soggettività di chi filmò, raccontano brandelli di vissuto quotidiano, scaturiscono da un hic et nunc difficilmente penetrabile. Il maneggio di tali pellicole implica perciò estrema cautela e considerazione, soprattutto da parte del filmmaker che manifesterà interesse nei confronti di questi corpi nascosti.

In tale prospettiva, l’edizione 2020 di Visioni Italiane offre tre spunti molto interessanti. Quando la materia di repertorio è prossima a chi la dissotterra, come nel caso delle biografie/autobiografie, nascono lavori dove partecipazione passionale, autoriflessione e sovrimpressioni tra passato e presente entrano in comunione.

Tra gli esempi più recenti e cristallini vi è il cortometraggio di Beatrice Baldacci, Supereroi senza superpoteri, prodotto da Fondazione AAMOD e in cartellone a Venezia 2019 nella sezione Orizzonti. Baldacci, mediante il montaggio di nastri VHS appartenuti ai genitori, realizza un percorso di riscoperta di un’intimità obnubilata, quella con la madre. Lo fa illudendo lo spettatore che il video recorder stia effettivamente srotolando una cassetta la cui etichetta rechi il titolo “Mamma ‘92-‘95”: accompagnate dalle parole della stessa regista, scorrono immagini di giovinezza e infanzia, puntellate da indicizzazioni temporali e programmi televisivi d’antan. Uno sforzo memoriale da cui lei, ragazzina (“Per ricordare a me stessa che non dovevo ricordare”), è sempre fuggita ma che ora abbraccia. È un’urgenza che rimanda immediatamente al film-culto di Alina Marazzi, Un’ora sola ti vorrei: per il dialogo che le figlie cercano di tessere con la presenza materna posata sul supporto filmico, per il bisogno di esteriorizzare un privato rubato ma anche e intrinsecamente “loro”, per convogliare emozioni e turbamenti altrimenti inestricabili. Riportando alla luce memorie esclusive e sommerse, Baldacci, così come fece Marazzi, cerca - con termini di Stan Brakhage - di impugnare il tempo sconfiggendo la morte.

Lui e io di Giulia Cosentino ha presupposti molto diversi. Il cortometraggio è infatti frutto della residenza artistica Re-framing home movies 2018, promossa da Archivio Cinescatti/Lab80, Cineteca Sarda/Società Umanitaria e Archivio Superottimisti/Associazione Museo Nazionale del Cinema. Il film si distingue per essere un’opera stratificata ed eclettica, lanciata su tre direttrici: visiva, narrativa, sonora. Per prima cosa, Cosentino utilizza footage provenienti interamente da un fondo privato, quello del sindacalista con la macchia da presa Raffaele Libra. Per seconda, instilla nuova linfa ai fotogrammi grazie ai testi di Natalia Ginzburg (Le piccole virtù, 1962) e Emma Baeri (I lumi e il cerchio, 1992). Infine, tutto il comparto sonoro, compresi i rumori, è estratto da nastri magnetici registrati negli anni da suo nonno.

Tre o più linee temporali e ontologiche si intersecano così in un lavoro che mette il focus sulla condizione femminile: il materiale di Libra viene smontato e riassemblato per essere cucito attorno alla figura della moglie. È dunque il desiderio di attivare una riscrittura di genere del cinema amatoriale (storicamente appannaggio dell’uomo) che spinge la filmmaker ad allestire questo rovesciamento di sguardi. Ritorna in filigrana il male gaze teorizzato da Laura Mulvey in Cinema e Piacere Visivo: sono i modelli di fascinazione del cinema narrativo classico ad avere strutturato lo sguardo secondo il quale l’uomo è l’agente dello sguardo e la donna ne è l’oggetto. Dando voce alla moglie di Libra, attraverso i testi di Ginzburg e Baeri, Cosentino si propone di spezzare “la più antica soggezione imposta alla donna, quella nei confronti dell’uomo”.

Idealmente, dove finisce Lui e io (l’incontro dei due futuri sposi), inizia Memorie di Alba. Il cortometraggio di Maria Steinmetz e Andrea Martignoni è una piccola gemma d’animazione realizzata con frammenti dell’archivio Home Movies. È la storia vera, narrata in prima persona, di un amore coltivato silenziosamente negli anni e sbocciato nella Bologna del 1953. Ha pertanto poco o nulla del tono, dello spirito e della forma di Lui e io. “Era lontana mille secoli l’idea che dovessimo diventare un giorno marito e moglie (…). Così disposti a congedarsi l’uno dall’altra, per sempre”, asserisce Cosentino nelle vesti della protagonista. Alba Rigacci invece capisce subito, giovanissima, che Pierino sarà l’uomo della sua vita. Intarsiate tra le magiche animazioni di Steimetz, le centellinate immagini di repertorio rendono unica un’opera che nella sua brevità è pura poesia.

I tre found footage film sopra citati sono solo tre esempi, calorosi e vibranti, di una pratica dall’espressione più disparata e originale, che si rimodula incessantemente a seconda degli scopi e delle occorrenze degli autori. Il materiale d’archivio, per chi ne sa cogliere la bellezza e la rarità, ha costituito e continuerà a costituire negli anni a venire una fonte preziosissima da cui attingere e trarre ispirazione. Le battute finali, per concludere questo piccolo viaggio, saranno concesse a Giulio Bursi: “Ci piacerebbe accostare i film di famiglia alle perle, sorta di mutazioni, malattie dell’ostrica .[Perle che,] raccolte, ordinate e ripulite […] compongono una bellissima collana: un vezzo, appunto, di famiglia.”