A due anni di distanza dalla riproposizione de L’uccello dalle piume di cristallo, il Cinema Ritrovato 2019 ha deciso di proseguire il percorso dedicato alla celebre trilogia argentiana, riservando agli appassionati del thriller una proiezione serale de Il gatto a nove code. Malgrado tale scelta appaia coerente ed organica, non va dimenticato come il secondo film dell’autore romano abbia sofferto per decenni della sindrome del figlio di mezzo, considerato insoddisfacente dal proprio padre artistico e relegato all’infelice posizione di pellicola minore; fortunatamente, proprio a seguito di una retrospettiva losangelina, lo stesso Argento ha ritrattato i propri giudizi negativi sul lavoro del 1971. Un ripensamento che non dev’essere interpretato come frutto di un approccio nostalgico: senza accampare pretese di classificazione nella filmografia argentiana, il suo secondo prodotto rivela una ricchezza tematica non indifferente, la cui analisi può aiutare a disvelare le linee guida del giallo, così come inteso dal futuro maestro dell’orrore.
Sarebbe innanzitutto errato ricondurre tutta la farina del film al sacco del regista: non si può dimenticare come Il Gatto a nove code sancisca l’esordio cinematografico di Dardano Sacchetti, questa volta nella veste di soggettista. Sacchetti, la cui carriera si dividerà negli anni successivi tra horror e polizieschi (suo il conio del personaggio di Er Monnezza), brevettò qui un intreccio di crimini che ricomparirà in simile forma nel coevo Reazione a catena: non a caso, un’opera di Mario Bava, autore di quel Sei donne per l’assassinio, a cui il film di Argento deve molto in termini di narrazione e immagini. Invero, il thriller torinese si presenta come attraversato da una fitta rete di rimandi ad altre opere del genere: per quanto lo spettatore odierno possa considerarlo come un dato di poco conto, l’approccio metacinematografico di Argento – come ricorda Pezzotta – costituì un tratto di novità nel panorama del thriller italiano, specialmente in una produzione non imputabile di conservatorismo.
Fatto salvo per le pellicole antecedenti di Bava, la strizzata d’occhio più celebre della pellicola si compie nella scena hitchcockiana del latte avvelenato, tributo al Sospetto dell’autore britannico. Ma le connessioni del film argentiano non si limitano ai confini del genere, toccando anche Per qualche dollaro in più e Blow-up: in tutti i casi, il collegamento viene evidenziato da un oggetto preciso (rispettivamente, il bricco del latte, l’orologio-ciondolo e la foto sviluppata) su cui Argento pone un’attenzione quasi feticista. A parziale anticipazione dello scivolamento futuro verso l’orrore, il regista di Suspiria dedicò particolare attenzione nella costruzione in dettaglio della scena del cimitero, dove le atmosfere della letteratura orrorifica più classica fanno da contorno alla suspence della detective-story.
Per quanto si siano sottolineati debiti e rimandi meta-cinematografici, i nuclei concettuali del film non assumono un’importanza secondaria, ma anzi aiutano a disvelare più d’un topos caro al cinema di Argento: tralasciando il tema dell’antropologia lombrosiana, è la dimensione ambivalente di paura e desiderio a divenire il motore degli eventi, cioè dell’incatenata sequela di omicidi. Rispetto all’Uccello dalle piume di cristallo, assume maggiore rilevanza la delineazione del set come diretto riflesso della solitudine dei suoi personaggi: in questo caso, una Torino più vicina agli incubi geometrici del suo regista che alla realtà. Fino ad arrivare a quello che è forse il tratto più noto della produzione argentiana: l’occhio bestiale e omicida dell’assassino, opposto all’iride azzurra del suo razionale e cieco indagatore. Che cattura e continuerà a catturare, a sua volta, gli occhi dello spettatore che, più o meno casualmente, dovesse incrociare lo sguardo con questo presunto film minore di Dario Argento.