Nei primi cinque minuti de Il gatto con gli stivali 2 – L’ultimo desiderio (da qui in avanti solo Il gatto 2) vi sono raccolti tutti gli elementi più interessanti e importanti di questa operazione, come se fossero una sorta di biglietto da visita, di antipasto di quello che ci aspetta, di bussola con la quale orientare il nostro sguardo durante la visione. Prima ancora che le gesta del felino vengano narrate sul grande schermo, il film si apre con una nuova versione del logo della casa di produzione, la DreamWorks Animation. Si tratta di una vera e propria sigla, molto curata nei dettagli, dinamica e capace di ripercorrere in pochi secondi le gesta di una carriera tanto invidiabile quanto sottovalutata.
Il celebre ragazzo pescatore, prima di adagiarsi sulla consueta mezzaluna, passa in rassegna molte delle figure chiave che hanno reso DreamWorks riconoscibile in tutto il mondo: si passa dall’orco Shrek al panda Po, da Sdentato al temibile Baby Boss. È la prima volta che la casa di produzione fondata da Spielberg, Katzenberg e Geffen decide di mettersi in mostra in questa maniera, con un movimento di macchina sinuoso e strabiliante in grado di abbracciare un intero universo. Certo, il tutto è principalmente dettato dal marketing, eppure sembra esserci, da oggi, una presa di coscienza importante.
Questa breve sigla sembra suggerirci che l’universo DreamWorks esiste eccome e non bisogna temere di citarlo per quello che è, non bisogna insistere nell’umiltà di non pensare di aver definito un canone, uno stile. Costretta da sempre a un confronto mipietoso, secondo i più, con la rivale Disney e la sua costola Pixar, DreamWorks ha lavorato in maniera molto più incisiva sul mercato e sull’immaginario dell’animazione globale. Pensiamoci: da un punto di vista di prodotto mainstream, quanti sono i discepoli di DreamWorks e quanti quelli di Disney? Non c’è storia. Se Pixar è l’eccezione, DreamWorks ha creato la regola.
Una regola che Il gatto 2 sposa in tutto e per tutto dalla prima sequenza, rivelandosi come uno dei progetti più riusciti da un punto di vista di messa in scena. Il film è un carnevale di colori, canzoni, luci, montaggio dal ritmo serratissimo, trovate visive in grado di amalgamare e far dialogare perfettamente l’animazione digitale con quella tradizionale. Insomma, è uno dei lungometraggi meglio diretti che siano stati realizzati negli ultimi anni e tutto l’entusiasmo e la grinta visiva espressi dalla prima sequenza incantano non solo per una questione formale, ma soprattutto perché connotano a meraviglia il protagonista e il percorso al quale sarà sottoposto.
DreamWorks non è nuova a proporre all’interno dei suoi lavori delle riflessioni meta cinematografiche che la riguardino in prima persona. Anche in quest’ultimo progetto la materia si fa interessante. Proprio come il felino più famoso delle fiabe è in procinto di vivere la sua ultima vita (le precedenti otto se l’è giocate a zonzo per il reame vivendo sensazionali avventure), anche DreamWorks si trova ora sulla soglia di un’accurata riflessione. Avendo alle spalle diverse decadi di lavoro, avendo scolpito un canone e dato vita a storie iconiche che hanno segnato intere generazioni, avendo indossato innumerevoli maschere e sposato i generi più disparati lungo la propria filmografia, ora cosa rimane? La paura provata dal gatto di fronte alla Morte (uno dei personaggi più riusciti e letteralmente spaventosi dell’universo DreamWorks) è la medesima che scuote gli uffici dello studio, quasi come se si trovasse a sua volta a fine corsa.
Dopo una vita intera (otto, se pensiamo a quelle del gatto) passata a costruire un percorso poliedrico, ad alzare sempre più l’asticella del settore cercando di inseguire il successo e sforzandosi di reinventarsi a ogni singolo tassello, Il gatto 2 ricorda ai suoi stessi produttori come la mossa giusta da concretizzare in questo momento sia quella di fermarsi un attimo e prendersi una pausa. Non tanto per riposare, quanto per imparare ad assaporare tutta la strada intrapresa. Certo, da un punto di vista narrativo si tratta della classica morale sull’importanza dei valori e degli affetti, nulla di nuovo. Da un punto di vista produttivo, invece, si tratta di una presa di coscienza mai così limpida e lucida.
Quello diretto da Joel Crawford e Januel Mercado rischia di diventare davvero un film spartiacque, non tanto per dividere la produzione di questi anni da quella a venire, ma per certificare finalmente l’importanza dell’operato di una factory che troppo a lungo è rimasta ai margini di un’industria e che con questo lavoro ha trovato finalmente il coraggio di ricordare e ricordarsi quanto siano state sensazionali tutte le sue vite precedenti.