Nella tradizione cabalistica, Agadah significa “narrare”. Scegliendo un titolo così, Alberto Rondalli dichiara gli intenti all’origine del suo adattamento di Manoscritto trovato a Saragozza, il romanzo alla cui realizzazione il conte Jan Potocki dedicò gran parte della vita. Già tradotto sul grande schermo da Wojciech Has nel 1964, quando non era ancora concluso il suo inesauribile travaglio editoriale (pubblicato inizialmente nel 1805, espanso e riedito fino al 1814, parzialmente non riconosciuto, ricostruito nel 2008 in seguito al ritrovamento di altri manoscritti), costituisce l’occasione per Rondalli di concentrarsi sui meccanismi e sui sortilegi dell’avventura della narrazione. Non a caso, oltre ad averlo scritto e diretto, si è occupato anche del montaggio, ripensando l’opera di Potocki all’interno di una struttura frammentaria ed eufonica che problematizza i flashback in una complessa tessitura memorialistica ed onirica.

Introdotto dalla presenza dello stesso scrittore, tormentato narratore della molteplicità della propria autobiografia, il film racconta di Alfonso van Worden che, all’indomani della battaglia di Bitonto (1734), riceve l’ordine dal re Carlo di Borbone di raggiungere Napoli, appena passata sotto il regno spagnolo. Diventa così il protagonista di un viaggio iniziatico, articolato in dieci giornate nelle quali s’imbatte in cugine musulmane, inquisitori, zingari, briganti, ebrei erranti, matematici, scheletri, fantasmi. È tutto un sogno? Rondalli coglie in questa domanda il senso di una narrazione allucinata che procede per accumulo e dissoluzione e cerca la risposta nelle scatole cinesi di Potocki, disseminando segni in grado di far smarrire lo spettatore in un vortice ipnotico.

Nel cinema italiano, c’è da sempre una piccola sottotraccia favolistica che ha affascinato autori non di rado più interessati al realismo: pensiamo allo spirito ancestrale che lega C’era una volta a Il racconto dei racconti, senza dimenticare la pasoliniana Trilogia della Vita fino a I magi randagi. Nel discorso di Rondalli c’è un’ambizione non facilmente incasellabile, specie considerando i limiti dell’attuale contesto produttivo entro cui emerge un film così temerario. La dichiara anzitutto attraverso un cast eterogeneo e sprovincializzato, abitato da attori stranieri (citiamo almeno l’argentino Nahuel Pérez Biscayart, appena visto in 120 battiti al minuto, gli spagnoli Jordi Mollà e Pilar López de Ayala), italiani recentemente un po’ accantonati (Flavio Bucci, Alessandro Haber, Umberto Orsini) o che hanno ottenuto maggiori soddisfazioni all’estero (Valentina Cervi, Caterina Murino), commedianti del Teatro Tascabile di Bergamo.

Questo apparato di diverse esperienze – anche linguistiche – produce una pluralità stilistica che si riflette in un affascinante ed eclettico groviglio di tensioni concatenate: la cerimonia degli scheletri è solo la punta di un surrealismo tetro che evoca quell’horror poi contaminato con l’erotismo della donna che si trasforma nell’atto sessuale, a sua volta uno degli apici del filone carnale, espresso da subito con le lascive e seducenti ragazze musulmane. Suggestioni che si sviluppano all’interno di un elegante e sontuoso romanzo picaresco, con lo sguardo consapevole di chi deve mediare il piacere del racconto fantastico con le insidie della complicata macchina narrativa. Narrando la narrazione di un narratore, Rondalli mette in gioco la propria capacità affabulatrice nel sovrapporre piani ed attribuire solenne freddezza ad un grande gioco erotico, un rebus nel quale perdersi è tanto facile quanto intrigante.