Melodramma travestito da western, lo spettacolare Il grande gaucho di Jacques Tourneur si propone come un’esotica e pedagogica storia di redenzione. Martin è un gaucho, un ruolo sociale in estinzione a metà fra il mandriano e il nomade delle pampas argentine, e proprio per questo una figura che ha fatto il suo tempo in un paese sempre più urbanizzato in cui le vaste pianure non sono più esenti da recinzioni. Le sue tradizioni ora si chiamano crimini e il prezzo da pagare è la libertà per cui ha sempre combattuto.

Una figura romantica, insomma, che ben presto diventa un leader rivoluzionario in lotta contro la modernità. Le sue azioni fanno eco alla lotta per l’indipendenza americana (quando distrugge i rifornimenti rievoca il Boston Tea Party) e alla battaglia contro le forze dell’ordine di Zorro (interpretato in passato da Tyrone Power, lo stesso attore previsto inizialmente per questo film). Il problema è che mentre i movimenti di unificazione americani miravano a costruire una nazione, l’Argentina del gaucho esiste già, è lui la forza disgregatrice dell’unità costituita. Ecco allora che attraverso l’amore per Teresa, una donna di città, arriva ad accettare il compromesso che la civiltà gli impone.

Come in molte altre produzioni americane, la storia d’amore simboleggia qualcosa di più ampio. Sposare Teresa significa abbracciare i fondamenti della civiltà: la famiglia, la patria (il maggiore incaricato di dargli la caccia afferma che a modo suo anche Martin è un patriota) e soprattutto Dio. Il cristianesimo è infatti il più importante punto di contatto fra i cittadini e i gaucho, e la figura di padre Fernández è il principale artefice della presa di coscienza del protagonista. Non è d’altronde insolito ritrovare i precetti biblici nel western (In nome di Dio di Ford) e nella produzione, soprattutto colossal storici, degli anni cinquanta (Ben Hur di Wyler, I dieci comandamenti di DeMille), nel primo caso come elemento fondante della nazione e nel secondo come valore anticomunista.

Ideologicamente in linea con l’epoca, dal punto di vista della messinscena Tourneur adotta soluzioni originali per esaltare la spettacolarità della principale novità tecnica, il technicolor. Decide ad esempio di fornire una simbologia a colori contrastanti, particolarmente evidente nella dicotomia blu-casacche dei militari-oppressione e rosso-vestito di Martin-libertà. Anche quando il paesaggio ha una colorazione uniforme, come nelle ampie pampas, cerca di farne risaltare la lucentezza contrapponendola alle silhouette dei personaggi, talmente scure da sembrare ombre cinesi in più di un’occasione. Proprio la vastissima pianura è la scenografia principale, mostrata in campo lunghissimo durante le sequenze a cavallo o, al contrario, la cui visione è ostruita quando i protagonisti della scena non sono i gaucho, come se non appartenesse loro. Le pampas vengono valorizzate anche nella loro dimensione verticale grazie al contrasto con le montagne in profondità o all’inclusione nell’inquadratura di ampie parti di cielo. È in quello stesso cielo terso che si trova la vera libertà agognata da Martin e, come viene detto nel film, attraverso di esso “Dio ci lascia intravedere il Paradiso”.