Partiamo da un fatto storico. Il grido è comunemente ritenuto un film di svolta nella filmografia di Michelangelo Antonioni, da un lato perché è un punto di arrivo del suo lavoro sui melodrammi degli anni Cinquanta, dall’altro perché anticipa in modo molto chiaro, anche se con definizione minore, tantissimi aspetti dell’Antonioni che ne sarebbe susseguito: le geografie deviate, i paesaggi vuoti come evocazione di spazi dell’anima, le identità frantumante, i personaggi erranti…

Un punto però lo rende un titolo unico, l’atteggiamento disilluso e spaesato che perfettamente ha descritto la maggior parte dei suoi personaggi borghesi, qui è attribuito a un proletario (ai tempi fu difficile per la critica accettare la sopraffazione ai sentimenti per un personaggio di questo tipo). Lo stesso Antonioni sostiene che in questo suo film il protagonista, a differenza di tanti altri, invece che compiacersene, tenta ripetutamente di reagire ai suoi dolori, prima all’abbandono della donna amata, poi all’emarginazione, all’incapacità di trovare equilibri nel suo lungo viaggio labirintico attraverso la pianura padana, all’incapacità di essere padre, al senso di inadeguatezza e alla solitudine.

Questo suo vagabondare ribadisce infatti un altro punto chiave del film: i margini. La traiettoria potrebbe prevedere il protagonista come un nucleo e le vicende (ovvero i vari personaggi secondari) come episodi che gli orbitano attorno, mentre invece è proprio il contrario, ne Il grido si assiste a un satellite e a tanti cambi di orbita. Ci sono movimento e velocità (gare di pugilato e di motoscafi, locali da ballo, fabbriche che svettano come relitti della modernità e collettivi movimenti di protesta) eppure vengono sempre rifiutati, stanno in profondità, alle spalle della solitudine e del silenzio. C’è un mondo feroce e competitivo là fuori, ma il protagonista sta emotivamente fermo, qua, dentro di sé.

Lo stesso Sandro Bernardi, in una famosa analisi del film di Antonioni, dice proprio che il punto di profonda rottura definitiva con il neorealismo di questo film sta nel suo posizionarsi consapevolmente ai margini della storia raccontata, ai lati della tragedia. Lo spazio e il tempo sono incerti, offuscati dalla nebbia, e permettono così al film di eliminare il mito, di occuparsi solo dei suoi resti.

A incorniciare il tutto – così come ad anticipare un altro discorso chiave di Antonioni che, allo stesso tempo, risulta ancora oggi perfettamente accordato alle tendenze dell’industria audiovisiva contemporanea – sono le figure femminili che intrecciano quello che forse è il sottotesto più interessante.

Sono figure “anti-tradizionali”, donne a cui è stato impedito un destino “canonico” (vedove o “madri mancate”) e soprattutto personaggi femminili forti ai quali i metodi desueti del protagonista non fanno sempre breccia. Ma sono anche figlie sulle quali ricadono le colpe dei padri, così come le paure che ne conseguono (come nella bellissima sequenza in cui la bambina, dopo aver ricevuto uno schiaffo, scappa dal padre ritrovandosi in mezzo ad anziani di paese innocui, ma spaventosi ai suoi occhi).

In questa distribuzione di ruoli, così come in tutto il film, sembra di intravedere un piccolo trattato della cultura dell’epoca, di quelle che erano le prospettive e le colpe. Per quanto ai margini del mito, Il grido non si pone certo fuori dalla Storia. E malgrado il malessere di fondo, il grido di aiuto individuale, fuori sembra mettersi in atto, nei cambi di rotta sociali e nella solidarietà di fondo, uno sguardo lucido, e neanche così disilluso, sui tempi che correvano.