Uno schermo bianco di un drive in, il suono di una battaglia in lontananza, lo scalpitio dei cavalli seguito da alcuni spari, l’eco di un film western rievocato dal movimento altalenante di un cavallo a dondolo. L’incipit di Midnight Cowboy, brutalmente tradotto in Un uomo da marciapiede, potrebbe anche essere uno dei numerosi flashback dell’infanzia di Joe Buck (Jon Voight), giovane aitante che sogna una New York accogliente e ricca di opportunità, tappa obbligata per dare una svolta alla propria vita lasciandosi alle spalle un deprimente futuro da lavapiatti.

Il protagonista del film di John Schlesinger indossati i panni di un vero cowboy, prende la valigia pezzata e sale sul pullman che lo condurrà verso la metropoli, quello del gigolò sembra essere un buon mestiere, immagina ricche donne sole e benestanti, ma l’abbigliamento folcloristico attrae soprattutto una clientela maschile. L’aria stravagante di Joe si nutre dei miti di John Wayne e Paul Newman, è quello spaccone, The Hustler del film, appeso a fianco dello specchio, a suggerirgli la camminata decisa e l’espressione audace.

Inizialmente le giornate newyorkesi non sembrano promettere cospicui guadagni, sguardi femminili freddi e poco incoraggianti costringono Joe ad affrontare la solitudine sintonizzandosi sulle frequenze dell’inseparabile radiolina portatile in cerca di voci amiche, un accompagnamento sonoro che ricorda le performance di John Cage e che lo distoglie da una realtà rivelatasi ben presto ostile e pericolosa.

L’incontro con Ratso, Enrico Salvatore Rizzo (Dustin Hoffman), un diverso hustler, il regista sembra giocare con i molteplici significati del termine, in pessime condizioni fisiche, diventa per Joe fonte di complicità e conforto. Entrambi vivono seguendo le proprie utopie, ma Ratso, ormai vinto dalla malattia, riversa le poche energie rimastegli pianificando una miracolosa guarigione sulle spiagge della Florida, la sua arrendevolezza viene contrastata da Joe che, nonostante le condizioni avverse, continua a vivere covando il sogno di una meritata autonomia.

L’incognita x sembra essere l’unico segno di distinzione per queste esistenze sull’orlo del precipizio; la x indica le finestre sprangate dell’edificio in cui trovano riparo ed è per Ratso una severa epigrafe immaginata sulla tomba del padre analfabeta, l’unica possibile firma e traccia che può lasciare un uomo ignorato dalla società che ha condotto una vita di stenti come la sua. La sola opportunità offerta dalla Grande Mela, sembra dire Schlesinger, sono i 15 minuti di celebrità warholiani, tutto si riduce nella grottesca comparsa televisiva di un cagnolino travestito e della sua padrona, voler apparire a tutti i costi risulta essere la via d’uscita dall’anonimato e Joe viene coinvolto suo malgrado proprio da Viva, un’icona della Factory, che dopo avergli scattato la rituale polaroid lo invita a un party; “Join us at the gates of hell”, riporta il volantino.

Midnight Cowboy è il primo film di Schlesinger realizzato in America; Andy Warhol entra nella vicenda non solo attraverso la presenza dei suoi collaboratori, Viva affiancata da Ultra Violet e Paul Morrissey, ma è la stessa scelta del soggetto ad essere influenzata da alcune pellicole del regista di My Hustler e Lonesome Cowboys, sono questi i due titoli che meglio si riflettono nel ruolo interpretato da Voight. Come per Paul America, l’hustler di Warhol, la prestanza fisica di Joe è accompagnata da un’ostentata ingenuità che lo porta a vivere in balia dei suoi clienti e adescatori. In Lonesome Cowboys ritroviamo l’aspetto parodistico del western (i ranch in cui viene ambientato sono gli stessi dei film di John Wayne), questi cowboys effeminati e promiscui mostrano un lato ambiguo della virilità del macho del west che Joe ignora e che rinnega solo nel finale del film levandosi di dosso il costume da rodeo.

Cecilia Cristiani