Vuoi per le atmosfere strazianti, vuoi per la dilaniante malinconia, Cupo tramonto fu un tale fiasco al botteghino da sospendere temporaneamente i rapporti tra Leo McCarey e la Paramount (se lo riprenderanno solo nel 1944 con La mia via). Tuttavia il regista, come si confà ai grandi che a prescindere dal successo difendono i lavori in cui ci mettono l’anima, rivendicò il valore di Cupo tramonto al punto da considerarlo la sua opera migliore, e quando ricevette l’Oscar quello stesso anno ma per L’orribile verità disse l’ormai celebre frase “Grazie, ma me l’avete dato per il film sbagliato”.
Se Re per una notte fu, per dirla con le parole di Morandini, “un fiasco che fa onore a Scorsese”, lo stesso si può dire di Cupo tramonto per McCarey. Bisogna essere di pietra per non struggersi dinnanzi a questo capolavoro. Se il nostro tempo è pieno di trentenni costretti a vivere ancora coi genitori, impossibilitati a crearsi un nucleo famigliare autonomo per instabilità economica, il terreno sul quale si muove la pellicola del 1937 è tremendamente simile per contrasto, con questa coppia di anziani richiedente aiuto ai figli perché non avendo più entrate il governo ha pignorato loro casa.
Tutto ruota attorno agli attriti che si vengono a creare nel momento in cui in età adulta ci si ritrova a convivere nuovamente con i propri cari sotto lo stesso tetto. Ma nonostante il monito biblico con cui McCarey apre il film, quel quarto comandamento che ci induce ad intendere i figli dei protagonisti non esattamente come delle gran persone, l’eccellenza dei dialoghi porta lo spettatore ad una comprensione delle ragioni di tutti i personaggi. È un film in bianco e nero, ma non c’è o il bianco o il nero.
In un primo momento la nonna, una straordinaria Beulah Bondi, cercherà di essere utile nel nuovo ambiente ma causerà inevitabilmente dei problemi, perché obbligata a muoversi in spazi e tempi non suoi (tenterà invano di abbattere lo scoglio generazionale che la separa dalla nipotina in una delle scene sul rapporto tra giovani e anziani più potenti della storia del cinema), con picchi di toccante disillusione durante i quali anche il più insensibile dei duri sentirà il bisogno di telefonare alla propria madre solo per manifestarle il suo affetto, per poi riagganciare lasciandola a dir poco basita. Sì, il film è capace di questo e altro.
L’altro lo trovate negli ultimi 30 minuti, quando Cupo tramonto si trasforma in uno dei più bei melodrammi di sempre. Potrebbe addirittura essere un corto a parte l’avventura di questi due splendidi ottantenni che dovrebbero fare una cosa ma dal nulla decidono di mandare tutto all’aria per fare ciò che davvero sentono, data l’imminente fine. In molti hanno visto in questo triste epilogo il crollo delle convinzioni di McCarey su quell’America di cui tanto si era impegnato a tratteggiare gli ideali nei suoi film. Resta il fatto che gli sguardi tra la Bondi e Victor Moore, per quanto dolceamari, conquistano in quanto rappresentazione di quell’amore sincero, fatto di gesti e fatti, non di parole al vento. Quello che dimostra di esserci, non che dice di esserci.