Cos’è la pittura nel terzo millennio? Senza azzardare ardite esplorazioni che ci porterebbero troppo lontano, limitiamoci al nostro campo. E, insomma, il cinema contemporaneo non sembra interessarsi molto all’attuale stato dell’arte figurativa. Sul passato, invece, siamo coperti: a parte il ciclico biopic sull’artista dalla vita straordinaria (ora è il turno del gettonatissimo Van Gogh, ma ci sono già toccati Turner, Renoir, Picasso, Pollock) e senza dimenticare alcuni exploit d’autore (National Gallery, Francofonia), presidia le sale con regolarità la fortunata serie didattico-spettacolare dei documentari monografici (Caravaggio, Michelangelo, Monet… con l’eccezione del vivente David Hockney). Ecco, non scommetteremmo un centesimo su una tale operazione sul pittore protagonista de Il mio capolavoro: ultrasettantenne autoproclamatosi “fallito”, egoista e scostante, povero e dimenticato, Renzo Nervi è quasi la caricatura di un cliché che – per il momento – non veicola una narrazione utile alla sua nazione.

Per certi versi seguace del muralismo messicano, ha goduto di un grande successo negli anni Ottanta anche grazie ad Arturo, il fedele e scafato amico gallerista. Entrambi sul viale del tramonto, simbiotici con la città nella quale vivono, l’elegante, decadente, incoerente Buenos Aires. Come si capisce dallo scontro tra i due con il giovane critico hipster dal completo troppo stretto – il registro umoristico sottolinea gli aspetti parodici, dalla ricca gallerista all’allievo spagnolo – che definisce l’artista “grezzo e anacronistico”, la stagione di Nervi pare essere finita da un pezzo. A chi interessi la pittura d’oggi è una delle domande su cui si edifica la sceneggiatura di Andrés Duprat, fratello del regista Gastón (qui senza il consueto sodale Mariano Cohn, solo produttore), che di professione fa il direttore del Museo delle Belle Arti della capitale argentina.

Un insider che avrebbe le competenze per approfondire il sistema dell’arte nel solco di The Square; e che, invece, sceglie di raccontare la storia di due reduci del Novecento. Se il gallerista prova a rincorrere le mode in freddi spazi asettici che contengono il ricordo di antichi fasti, il pittore si è chiuso nello sterile e compiaciuto isolamento di una caotica casa-atelier da cui sta per essere sfrattato. Nell’epoca in cui gli articoli sportivi possono diventare pezzi di una mostra da migliaia di visitatori (“niente che non abbia già fatto Duchamps”), questi due rottam(at)i riescono a ridare valore – economico, politico, artistico – alla trascurata pittura. E lo fanno in un modo così rocambolesco che non è il caso di rivelare.

Sulla messinscena di una menzogna e la manipolazione della realtà avrebbe già detto molto Marco Bellocchio tramite lo Smamma de Il regista di matrimoni, ma ne Il mio capolavoro il mondo dell’arte si rivela soprattutto uno strumento per ritrarre una grande amicizia. Dove gli attimi più limpidi sono quelli che non hanno bisogno di parole per dire ciò che ai cuori era già chiaro prima che gli occhi s’incrociassero al crocevia della paura. Se ne Il cittadino illustre Duprat lasciava affiorare l’acidità concentrandosi sull’ostilità verso il singolo, qui è la coppia (gli amici; ma, allo specchio, anche i due Duprat e il regista e Cohn) a determinare la cifra dell’affetto che pervade ogni cosa, perfino la più disgraziata.