Proponendolo con il titolo Il mio Godard, la distribuzione italiana induce a suffragare la prospettiva che Le redoutable sia la lettura personale di un autore, ovvero Michel Hazanavicius. E ciò nonostante all’origine ci sia Un année studieuse (da noi Un anno cruciale, Edizioni E/O, 2013), il memoir in cui l’io narrante di Anne Wiazemsky racconta gli anni accanto a Jean-Luc Godard. Il titolo originale del film significa “il temibile” e si riferisce ad un formidabile sottomarino il cui varo viene narrato alla radio anche per magnificare la potenza politica della Francia di De Gaulle. E gollista era il premio Nobel François Muriac, nonno dell’attrice di Au hasard Balthazar. Individuando nell’amore tra quest’ultima e il borghese cineasta anti-borghese un ideale crocevia della recente storia francese, un banco di prova per la rivoluzione attesa da Godard stesso, Hazanavicius sposa concettualmente il titolo del romanzo. Tuttavia, il quando evocato da Wiazemsky diventa solo una parte di un discorso che il regista focalizza soprattutto sul chi. Poiché noi maliziosi leggiamo la dichiarazione d’intenti oltre l’evidenza della metafora, vediamo nel titolo una fatale allusione anche al come (Godard le redoutable, insomma).
Incrociando il privato con il pubblico nel frangente che comprende La cinese e le riprese di Vento dell’est, Hazanavicius fa un’operazione molto più complessa di quanto ritengano i detrattori e i godardiani punti nell’orgoglio di vedere la tranche de vie di un artista sicuramente non riducibile a questa storia privata. La cosa più divertente del film è, infatti, la lesa maestà. L’idea che un titano del cinema mondiale possa essere corpo di una commedia resta, se non originale, perlomeno interessante.
Ma in che modo si articola questa ironia? Presuppone la conoscenza dello stile e della carriera del maestro per essere completamente apprezzato o capito? A chi si rivolge un film del genere? Sono domande inscindibili l’una dall’altra che rivelano un film antifrastico, in cui l’accattivante umorismo tipico dell’autore ammicca ad un pubblico non sempre disposto ad accettare l’aspra complessità del uomo-mondo Godard. Hazanavicius tallona la cavalcata amorosa della ragazza (nell’ordine: innamorata, fedele, solidale, annichilita, confusa, annoiata, turbata, adirata) verso cui esprime una chiara empatia e intercetta la commedia nella tragedia, rischiando finanche la parodia.
Formalmente esplora e ripropone gli stilemi godardiani per raccontare i dieci capitoli dell’affaire: ma rifare, per esempio, la lunga carrellata della passeggiata di Week-End o la fotografia in negativo di Una donna sposata dimostra non tanto una problematica decontestualizzazione di queste intuizioni fuori dalla poetica di riferimento, quanto davvero la solitudine (l’isolamento?) del personaggio Godard. Regista che ci ha abituato a lavorare con disinvoltura dentro il cinema del passato (i reboot delle spy stories pop degli anni Sessanta, il muto hollywoodiano di The Artist, il detestabile remake di Odissea tragica di Fred Zinnnemann), Hazanavicius semplifica e smonta il mito, quasi accarezzando l’ipotesi che sia un bluff: cioè che l’incapacità per Godard di replicare le grandi intuizioni estetiche dei primi lavori sia figlia del radicalismo politico. Opinione legittima, ma tutto lo sguardo sul filone sessantottino è di una superficialità imbarazzante, la vacanza militante di una borghesia suggestionata dal marxismo (le barricate coi mobili degli altri), con l’interruzione di Cannes ’68 come una protesta fricchettona, perfino menefreghista delle amicizie (in concorso c’era l’unico film di Michel Cournot).
Infine, Il mio Godard è anche l’incontro tra due visioni dell’attuale cinema francese. Quella di Hazanavicius, autore di sistema dal côté pop, primo regista francese a vincere un Oscar; e quella di Louis Garrel, che porta in dote la rispettabilità maturata con auteurs quali papà Philippe, Bernardo Bertolucci, Christophe Honoré o Bertrand Bonello. Nel mediare la chiara antipatia del regista nei confronti di Godard, Garrel adotta un approccio mimetico, facendo di sé un corpo comico in cattività nel mondo da lui stesso creato (compresi i colori degli interni domestici ereditati da La cinese). Coloro che gli gravitano attorno sembrano figurine incapaci di andare al di là dell’album patinato, con l’apice di grottesco involontario raggiunto nel segmento italiano dove Bertolucci e Marco Ferreri sono la superficie delle loro immagini pubbliche (la erre moscia l’uno, la trasandatezza l’altro).
Ovvio, niente di drammatico, tutto molto spiritoso nonostante perplessità e facilonerie: ma sfugge dove voglia esattamente andare il film. E un po’ ci si chiede cosa sarebbe stato questo rotocalco cinefilo se, al posto del pur puntuale Garrel, Hazanavicius avesse coraggiosamente (oltraggiosamente?) affidato la maschera godardiana al feticcio Jean Dujardin.