La famiglia di Philippe (Vincent Lindon) è al collasso: le sempre maggiori responsabilità che l’azienda per la quale lavora gli richiede hanno tolto tempo ed energia alla sua vita privata. Ora il gruppo di cui il suo stabilimento fa parte intende licenziare cinquantotto persone e lui deve decidere di quali dipendenti dovrà fare a meno.

Forse nessuno come Brizé (La legge del mercato, In guerra) sa oggi raccontare il lavoro e le sue contraddizioni, il peso e gli effetti che il sistema produttivo capitalistico ha sulle vite degli uomini e delle donne che da esso vengono travolti. Attraverso la figura di Philippe, il regista francese imbastisce un racconto sull’(assenza di) etica del lavoro, un’accusa alla catena di responsabilizzazione connaturata al mercato: ogni livello di dirigenza scarica la responsabilità di una decisione sui livelli inferiori, perché la colpa ricada su qualcun altro. Philippe, investito dai suoi superiori di un peso per lui insopportabile, cerca di uscire da questo meccanismo, facendo di sé da un lato lo scudo che protegge i dipendenti, dall’altro la controparte di un dialogo con i lavoratori dei quali è riuscito a conquistare la fiducia.

Prova così a spezzare questa cascata di responsabilizzazione proponendo ai suoi pari-grado di rinunciare ai propri bonus e a una parte dello stipendio per soddisfare le richieste del gruppo aziendale senza perpetrare il sacrificio richiesto, ma il suo piano viene rigettato. Il contemporaneo crollo della sua vita privata (l’altissimo prezzo che il lavoratore deve pagare per sopravvivere), unito a una proposta eticamente riprovevole che riceve dall’azienda, lo fa riflettere sul tipo di uomo che è diventato. 

La regia di Brizé esprime uno sguardo lucido e coerente con la sua visione del mondo che si manifesta in ogni inquadratura. Se i lunghi primi piani di Lindon durante i colloqui con i dirigenti o nell’incontro con gli avvocati per il divorzio rendono visivamente il senso di claustrofobia e di isolamento provato dall’uomo (spesso ripreso anche in campo medio, da solo, mentre lavora seduto alla scrivania), le riprese con macchina a spalla che lo seguono da vicino fino a fargli perdere la centralità dell’inquadratura e a collocarlo ai margini dell’immagine riproducono la sua perdita di centro interiore nei momenti più intimi.

Mirabile a questo proposito è la sequenza della vendita della casa, dove il racconto trasmesso soltanto grazie al sonoro dei dialoghi mentre l’immagine indugia sul volto di Philippe esplicita il suo senso di confusione. A concretizzare ulteriormente questa visualizzazione dello stato d’animo del suo protagonista, Brizé inserisce un elemento che da narrativo si fa metaforico: la marionetta. Il figlio di Philippe è ricoverato in un centro speciale per problemi psichici (forse in seguito a un esaurimento nervoso causato dallo stress del divorzio dei genitori) e una delle attività a cui si deve dedicare è un esercizio in cui, di concerto con un compagno, deve far camminare una marionetta. Se ad un primo livello di lettura questo richiama la necessità della collaborazione tra lavoratori (ma più in generale quella tra esseri umani) per portare avanti un progetto, dall’altro non può non riflettere la sensazione di Philippe di essere controllato da qualcuno che muove i fili della sua vita.

Il sodalizio Brizé/Lindon produce ancora una volta risultati eccellenti e offre un altro tassello da inserire nello sfaccettato puzzle sul mondo del lavoro che il regista sta componendo con cruda e organica chiarezza.