Non abbastanza risoluto per attraversare con disinvoltura una stanza affollata di ospiti illustri, sentendosi addosso gli sguardi della gente, un genio, taciturno e angosciato dalle conseguenze delle sue invenzioni, comprende il proprio destino. Sa di non potersi affidare a molti alleati. Se utile, verrà applaudito. Se lucido, desterà una taciturna e imperturbabile irrequietezza in chi non afferra il mistero. Se ne possono osservare i movimenti con minuziosità e un crescente appassionamento.

Gli irriflessivi gesti della sua faccia. La sua voce, tanto grave e pacata da sembrare uscire da una nuvola di fumo. I suoi dilatati silenzi prima di rispondere alle domande improvvise. I suoi occhi sognanti. La sua espressione, perennemente malinconica. Le sue mani affilate e fantasmatiche, che si sollevano come pugnali al ritmo dei suoi desideri. I suoi abiti, inoltratisi a fatica in una terra ostile che l’indomani potrebbe essere occupata dai suoi peggiori nemici. La sua risata, occasionale e arruffata, in grado di proferire la verità spacciandola per gioco.

Questo è ciò che accade allo sfuggente Professor Henri Vollmer, nel prologo di una delle opere più oscure della filmografia di Rainer Werner Fassbinder, Il mondo sul filo. Tratto dal romanzo Simulacron 3 di Daniel F. Galouye e girato in quarantaquattro giorni, durante una pausa nella produzione di Effi Briest, rappresenta il suo unico film di fantascienza. Fassbinder, prigioniero nella vita reale di una parabola simile alla sorte del suo Vollmer, è stato a sua volta un genio. Un intellettuale prolifico e sensibile, anche qui capace di far emergere il suo cinema, riuscendo ad andare ben oltre la semplice distopia.

Il mondo sul filo mette in scena una storia di fantascienza. Da una parte, abbiamo lo statuario Istituto di Cibernetica e Futurologia. Un organismo che, grazie al prodigioso supercomputer Simulacron, mette a punto una simulazione della realtà, riproducendo la ferrea vita di una città gremita di circuiti elettronici inconsapevoli d’essere il dispensabile bandolo di un’idea. E abbiamo l’indagine di Fred Stiller (Klaus Löwitsch), testimone attonito della scomparsa del fidato collaboratore di Vollmer, Guenther Lause.

Tuttavia, che cosa riserva l’altra faccia dello specchio? Sotto la lavagna scheggiata dell’incubo avveniristico, con il lungo guizzo di un treno che cominci a inclinarsi, incurvarsi e a scivolare in una luce d’argento riaffiorando dalla galleria, Fassbinder chiama il suo mentore putativo: Douglas Sirk. Citiamo, per un momento, Secondo amore (1955), precursore del capolavoro di Fassbinder La paura mangia l’anima (1974).

In una scena, possiamo osservare un’inconsolabile Cary Scott, donna prima troppo bene abituata per disporsi ad affrontare il pericolo, e ora oggetto di un disprezzo indistinto di una comunità bigotta, poiché innamorata del giovane Ron Kirby. La figlia, Kay, nel tentativo di scacciare una mestizia non consona all’atmosfera natalizia, prova a consolare la madre. A differenza del fratello, dopo essersi inizialmente associata alla triste riprovazione del solo uomo rimasto in casa, ne capisce finalmente la solitudine. Ancor più intollerabile quando è una società a ostacolare la crescita e l’autorealizzazione dell’amore, costringendo la vedova a non vederlo né viverlo, bensì a ricordarlo dopo averlo annunciato.

Dall’altra parte il figlio, indifferente alla bellezza del sentimento, qui con il sorriso professionale di una pubblicità non particolarmente persuasiva, riappare per porgerle un regalo. È un televisoreil mo. È sufficiente girare una manopola. Inevitabilmente, alla prospettiva di divenirne la migliore amica, la vedova guarda la propria immagine riflessa sullo schermo vuoto. Lo specchio e l’imitazione della vita. Il mondo sul filo, anticipando opere come The Truman Show e Matrix, non si rivela soltanto un film di fantascienza.

Solidale con il personaggio interpretato da Jane Wyman, nel suo pessimismo nei confronti della tecnologia, il cinema di Rainer Werner Fassbinder, profondamente legato ai processi che si verificano nel sociale, intuì che la realtà stesse mutando richiudendosi. Basta uno specchio, con il suo conforto anestetizzante, a incutere timore. Non è un caso che, galvanizzato e insieme atterrito dalla sua scoperta inconfessabile, il Professor Vollmer agiti uno specchietto sotto il naso del politico von Weinlaub. Infine, sentenziando quanto segue: “Lei è, né più né meno, l'immagine che gli altri hanno di lei”.

Tra riferimenti visivi e allusioni a pellicole quali Il sangue di un poeta (Jean Cocteau, 1930) e Meshes of the Afternoon (Maya Deren, 1943), Il mondo sul filo, oltre al ricorso di specchi e monitor, è costellato di riferimenti filosofici. I quali, abili anch’essi a distorcere la realtà e a mettere in discussione l’impercettibile – o insignificante – nozione d’identità, mettono inoltre in moto il processo di liberazione avviato dalla curiosità di Stiller, eroe a metà tra Humphrey Bogart ed Eddie Constantine. Da una parte, Zenone e il paradosso di Achille e la tartaruga. Dall’altra, il genio maligno cartesiano incarnato dalla fisicità del computer. Un oggetto abituato a divertirsi a confutare qualsiasi calcolo o previsione, rendendo sia la realtà che l’identità un cammino in grado di ramificarsi in un’infinità di forme e unirsi a un’infinità di persone.

Tuttavia, ne riceviamo una razione. Quantitativamente limitata, può esaurirsi, logorarsi e svanire prima di aver raggiunto la sua destinazione, in qualche punto delle più insondabili regioni della psiche. Sicuramente, non sarebbe dispiaciuto a Jean Baudrillard, pensatore della sparizione della realtà impegnato a descrivere l’invadente evidenza della simulazione.

Con una scrittura ironica e suggestiva, Il mondo sul filo è un gioco magistralmente condotto da uno degli autori più acuti e affascinanti del secolo scorso.