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“La grande abbuffata” 50 anni fa

Quali sono le cause perturbanti del cinema di Marco Ferreri (un ex veterinario approdato al cinema con la sua coorte di animali, corpi e fisiologicità abbondanti)? Di sicuro ciò che crea disagio in questo film è la metafora nascosta dietro al cibo, poiché Ferreri usò il cibo in tutti i suoi film e massimamente ne La grande abbuffata, come mezzo per interpretare, criticare e demolire le sovrastrutture sociali. Oppure il fastidio nasce dal fatto che questa rappresentazione fu fatta in chiave più che grottesca, quasi scatologica?

“The Wicker Man” 50 anni fa

The Wicker Man è un film senza tempo che ha il doppio della rilevanza nell’epoca della visibilità totale. Nessun altro film a basso budget ha saputo costruire la tensione per sottrazione come l’opera di Hardy e Shaffer, o interpretare le contraddizioni sociali del periodo in una dimensione sospesa tra sogno e paranoia, rendendolo antico e moderno insieme. E se le circostanze non sono favorevoli, il resto è puro allineamento cosmico in cui le scarse risorse a disposizione riescono addirittura ad esaltare l’anima dell’operazione.

“The Wicker Man” estatica celebrazione dell’horror

“Il Quarto potere dei film horror”. Così la rivista di culto Cinéfantastique definì nel 1977 The Wicker Man, capolavoro del cinema inglese realizzato in un periodo difficile per l’industria britannica. La stessa British Lions, produttrice del film, venne comprata durante le riprese obbligando la troupe a finire il prima possibile. Una volta distribuita, l’opera non ottenne l’attenzione che meritava ma venne riscoperta già pochi anni dopo, diventando un cult.

“L’esorcista” 50 anni dopo

L’esorcista può essere analizzato come un horror da camera in cui convivono stilemi classici del genere (la discesa dalle scale di Regan come un ragno, la camera spettrale in cui si consuma l’esorcismo), soluzioni vicine allo splatter “new horror” (la scena della masturbazione, i liquami emessi dall’indemoniata) e una tensione emotiva sotterranea che fa percepire nevrosi e traumi del quotidiano attraverso la metafora della possessione.

“Lo spaventapasseri” cinquant’anni dopo

Basterebbero i primi sette minuti del film (girati senza stacchi di montaggio a camera praticamente ferma) a esprimere la grande potenza di quest’opera e alla sua importanza nel cinema coevo: una figura in lontananza scende da un pendio, il contrasto è ad impatto fortissimo, tra lo sfondo del cielo (buio per l’approssimarsi di un temporale: attenzione non solo meteorologico, ma anche narrativo e quindi metaforicamente centrale) e una piccola collina, piena di grano di un giallo accecante, dove al centro si staglia un albero senza foglie.

“Paper Moon” 50 anni fa

Bogdanovich ci dimostra di poter usare il cinema per una riflessione diacronica e sincronica. L’anno prima di Paper Moon, il regista aveva diretta Ma papà ti manda da sola? sorta di remake di Susanna! (1938) e, nel 1971, in L’ultimo spettacolo aveva raccontato la fine di un certo stile cinematografico attraverso la sua stessa metafora spettatoriale. Questa caratteristica cinefila si manifesta in maniera ancora più deflagrante nella pellicola del 1973 dove la contrapposizione donna-uomo diventa momento di riflessione sulla storia del cinema e dell’intera società americana.

“Lo spirito dell’alveare” e l’infanzia della cinefilia

Attraverso un trauma storico (la guerra civile spagnola) Erice mette in scena un trauma percettivo prodotto dalla nascita del cinematografo. A partire dal fascismo franchista viene messo sotto accusa l’eterno fascismo dell’esperienza adulta. Quel mondo adulto che preferisce spiegare piuttosto che vivere le proprie esperienze, che non prova più meraviglia per l’avvento di un treno. Lo sguardo cinefilo allora rimane l’ultimo baluardo in età adulta di una disposizione infantile all’esperienza.

“Il mondo sul filo” 50 anni fa

Il mondo sul filo, tratto dal romanzo Simulacron 3 di Daniel F. Galouye e girato in quarantaquattro giorni, durante una pausa nella produzione di Effi Briest, rappresenta l’unico film di fantascienza di Fassbinder: prigioniero nella vita reale di una parabola simile alla sorte del suo Vollmer, intellettuale prolifico e sensibile, anche qui capace di far emergere il suo cinema, riuscendo ad andare ben oltre la semplice distopia.

“Martha” 50 anni fa

Compreso tra la La paura mangia l’anima, rifacimento proletario di Secondo amore di Sirk, e l’incursione ottocentesca di Effi Briest, Martha porta in ambienti prima barocchi poi goticheggianti una vicenda di rieducazione perversa e vampirismo coniugale, magari influenzata dalle due regie ibseniane del periodo (Hedda Gabler al Freie Volksbühne di Berlino nel dicembre ’73 e Nora Helmer, adattamento di Casa di bambola per il piccolo schermo), e calata in un’atmosfera noir, derivata dal racconto di Cornell Woolrich cui è liberamente ispirato il soggetto.

“Lady Snowblood” 50 anni fa

Lady Snowblood, un revenge movie in chiave chanbara dai colori pop, ricoperto da quegli schizzi, o meglio, spruzzi di sangue che avevano iniziato a sgorgare nella scena finale di Sanjuro (Kurosawa, 1962), è un film che insegue il fumetto ed è tratto da un manga gekiga del 1972-73 che a sua volta insegue il cinema, disegnato da Kazuo Kamimura, il “pittore dell’era Showa”, divenuto celebre per le sue eleganti figure femminili cariche di erotismo, talmente cariche che Lady Snowblood viene considerato seinen (v.m. 18, diremmo noi).

“La città verrà distrutta all’alba” 50 anni fa

Prima che il nome di Romero venisse associato indissolubilmente ai suoi film di zombie, l’autore statunitense dirige una piccola gemma del cinema fantapolitico: La città verrà distrutta all’alba. Il film racconta di un’arma chimica caduta accidentalmente nei pressi di una cittadina della Pennsylvania e dell’escalation di violenza che ne consegue. È proprio nella risposta dei personaggi alla repressione militare che emerge la personalità autoriale del regista, che non si limita a criticare le iniquità insite nelle strutture di potere, ma analizza l’inconscio collettivo statunitense. 

“Come eravamo” 50 anni fa

Nonostante il lungometraggio di Pollack sia così perfettamente calato nel suo tempo e proponga evidenti e precisi riferimenti storici, l’amore che viene portato in scena trascende la periodizzazione dell’opera e commuove anche lo spettatore contemporaneo. Come eravamo è un chiaro esempio di perfetto equilibrio registico tra una recitazione drammatica e divistica – comunque capace di trasmettere con sincerità le emozioni – una sceneggiatura non eccessivamente patetica

“Le due sorelle” 50 anni fa

Nel 1973 De Palma girò Le due sorelle, thriller al femminile e horror psicologico che anticipa molti elementi tematici e alcuni stilemi del suo cinema immediatamente successivo: le morbosità familiari di Complesso di colpa, la paura della sessualità femminile in Carrie, lo split screen inimitabile di Blow Out, lo sdoppiamento patologico in Dressed to Kill, e ancora il dichiarato voyeurismo della soggettiva, i colpi di scena suggeriti dai giochi d’ombre e le ossessioni private di tanti suoi personaggi a venire.

“Sussurri e grida” 50 anni fa

Bergman riesce a mettere a fuoco le dinamiche e i conflitti provenienti dai traumi del passato, celebrando un disperato cerimoniale femminile in uno spazio liminale tra la vita e la morte, organizzato secondo rapporti di simmetria assiologica: Agnes, la sorella in fin di vita, è come la sua devota domestica Anna, affamata d’amore umano e divino, mentre Karin e Maria appartengono alla schiera delle peccatrici senza Dio.

“La stangata” 50 anni fa

Nell’interstizio tra la crisi del cinema delle major e la svolta generazionale del pubblico si inserisce un film come La stangata (1973) di George Roy Hill, un fenomeno cinematografico che forte dell’appeal dei suoi protagonisti, Paul Newman e Robert Redford, segnala certe tendenze di una Hollywood nostalgica ma allo stesso tempo briosa, ancora oggi entusiasmante nel suo equilibrio tra innovazione e continuità con i linguaggi della tradizione.

“La maman et la putain” tra la fine della rivoluzione e l’odissea linguistica

La tensione fra il detto e il mostrato non si allenta mai in La maman et la putain. Le parole vaghe dei protagonisti narrano una storia di intellettualismi e tentativi di riflessione, di una Francia post ‘68 dove l’impeto rivoluzionario ha ceduto il passo all’indolenza. I volti, la giustapposizione dei corpi e i controcampi nelle scene di dialogo ne raccontano un’altra: quella di un’incapacità totale di percepire se stessi e quindi gli altri, di una necessità infantile di nascondersi nel vuoto della quotidianità.

“Mean Streets” 50 anni dopo

“Vivendo nella Little Italy di Manhattan potevi scegliere fra diventare gangster o prete. Io scelsi la via religiosa, ma finii per diventare un regista”. Il neoadolescente Martin Scorsese, bloccato tra le mura di casa per via dell’asma, guarda dalla sua finestra il formicaio umano di Little Italy e i goodfellas che ne popolano le strade

“Scene da un matrimonio” 50 anni fa

L’11 aprile 1973 la SVT2, il secondo canale svedese, trasmette il primo episodio di Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman, serie che per le successive sei settimane avrebbe tenuto compagnia al pubblico televisivo. A cinquant’anni dalla sua messa in onda forse il lato più interessante è proprio interrogarsi sulla capacità di Scene da un matrimonio, pur nella sua singolarità stilistica e narrativa, di presentarsi come racconto universale sulle relazioni umane e dunque di farsi modello per tante altre narrazioni.

“Zardoz” turbinoso e psichedelico

Considerato un film trash quanto un cult, Zardoz rimane un’opera straniante e sorprendente, uno di quei casi in cui collassa la distinzione fra cinema di genere e d’autore. John Boorman sfruttò la libertà di sviluppare un soggetto personale e non convenzionale, che non venne apprezzato granché quando approdò nelle sale. L’autore inglese fu rimproverato prevalentemente per le troppe considerazioni filosofiche. Indubbiamente una sola visione non basta per entrare in sintonia con un prodotto così sfuggente, che ibrida fantascienza distopica e mystery, speculazioni sulle implicazioni sociali dell’immortalità e un caleidoscopico impianto visivo/narrativo.

“Ludwig” 50 anni fa. Il biopic tra vita, storia e politica

Come Ludwig personaggio rifiuta di essere deposto e vuole decidere per la sua vita, Ludwig il film afferma la sua vitalità artistica. Lo scambio tra vita e film non si conclude qui, e il biopic non è semplicemente su Ludwig ma su Visconti stesso: nella sua identificazione con Ludwig, nobile omosessuale con interessi artistici, ma anche nella sua condivisione di alcuni tratti degli altri personaggi e nell’utilizzo di attori e attrici come Berger, Schneider, Orsini, Mangano, Griem e Asti appartenenti alla sua cerchia.