Ispirato a fatti realmente accaduti, Il muto di Gallura narra la faida tra le famiglie dei Vasa e dei Mamia che sconvolse le campagne della regione sarda tra il 1849 e il 1857. Oltre settanta persone furono uccise in questa prolungata e continuamente rinnovata resa dei conti, originata da un “abbraccio” (la tradizionale cerimonia di fidanzamento) spezzato per una questione d’orgoglio.

Il film di Matteo Fresi, un gioiello cinematografico che sotto il pretesto di una diatriba locale racconta invece l’universale inclinazione dell’essere umano alla difesa del proprio status sociale, tesse la sua fluida e tesa narrazione lungo dicotomie come amore e morte, guerra e pace, uomini che si fanno giustizia da sé per difendere l’onore come chiede la tradizione e uomini dello Stato che provano a portare sull’isola una giustizia legalizzata (ma “chi ne ha mai visti di re in Gallura?”).

Per quanto divise dalle questioni d’onore e di vendetta, le due famiglie allargate che si contrappongono costituiscono un vero e proprio microcosmo sociale, esaminato da Fresi nella sua immanenza storica: rappresentanti di un mondo al limite (geografico, etico e storico), in bilico sull’orlo dell’avvento del progresso socio-culturale, i Mamia e i Vasa sono al contempo vittime e carnefici, non solo degli omicidi ma di un sistema sociale schiavo della legge dell’onore che rende impossibile un reale cambiamento.

Fresi, eccezionale nell’elevare i suoi personaggi a simboli di un tempo che sarebbe comodo credere scomparso, posa su di loro uno sguardo che mai li difende né mai li giudica con i parametri dei nostri tempi. Anzi, accentua la contrapposizione etica tra gli appartenenti a tale microcosmo e gli estranei (come appunto i “rappresentanti del Re”) attraverso la discrepanza linguistica: mentre i primi si esprimono quasi solamente in sardo, i secondi parlano italiano. Il parroco, mediatore tra la legge del taglione e la legalità, adotta entrambe le lingue.

Alla luce di questa considerazione, appare singolare il fatto che Il muto di Gallura debba il titolo al personaggio di Bastiano Tansu (Andrea Arcangeli), un bandito sordomuto legato alla famiglia dei Vasa che divenne leggenda per la sua abilità con il fucile e la sua scaltrezza nel fuggire alla morte. Il linguaggio di Bastiano è l’azione e Fresi riesce a delinearne la complessa personalità grazie a fini sottolineature di dettagli (il fiore di san Giovanni), pur senza entrare – ma questo vale anche per gli altri personaggi – in un approfondito scavo psicologico, proprio perché a Fresi non interessa isolare l’unicità di un personaggio ma seguire il loro agìto nell’evoluzione della storia.

Proprio dalla disabilità di Bastiano, attribuita da una guaritrice alla visione della “Reula” (la processione di anime penitenti), scaturisce l’accurata ricerca sul sonoro propria di questo film. Attraverso “soggettive uditive” ci viene presentata la percezione acustica del ragazzo: quando alla musica delle danze per la festa di fidanzamento subentra il fischio, diventa chiaro che quella è la sua percezione uditiva del mondo. Bastiano dunque è un outsider dalla nascita, segnato e condannato a una solitudine che nemmeno l’amore sincero di una ragazza riuscirà a infrangere. Una nota particolare merita la colonna sonora, molto efficace e puntuale in quanto articolata sia su rielaborazioni moderne di sonorità tipiche sia su musiche cantate ed eseguite con strumenti della tradizione, in particolare fiati e percussioni.

Dal punto di vista visivo, la fotografia di Gherardo Gossi sa cogliere da un lato la bellezza dei paesaggi e dall’altro la difficile relazione dell’uomo con l’ambiente: se i notturni valorizzano l’effetto psicologico delle luci e delle ombre, nelle scene ambientate di giorno le tonalità calde offrono risalto al torrido e al secco di una natura che si offre come perfetto contesto di un racconto che accoglie chiari riferimenti al genere western, tanto nell’ambientazione quanto nella costruzione visiva e narrativa delle scene, senza dimenticare la componente musicale. Magistrale è poi lo studio della luce negli interni.

Soprattutto, però, è la regia che colpisce positivamente. I singolari punti di ripresa (l’inquadratura dall’interno del bicchiere con il vino che oscura gradualmente lo schermo); i dolly a seguire i movimenti dei personaggi fino ad allargare la visuale sui panorami; i dettagli naturalistici che si contrappongono a quelli degli oggetti prodotti dall’uomo; gli stupendi primi piani di volti perfetti nelle loro imperfezioni, in cui si può leggere un’eredità del nostro cinema più autentico che dal Neorealismo porta a Pasolini e a Ciprì/Maresco; le micro-narrazioni che sviluppano istantanee emotive (il momento in cui la madre si rende conto dell’omicidio del figlioletto vedendo il cavallo fuori dalla finestra è vera maestria registica).

Tutto riesce a infondere concretezza e organicità all’idea che pervade la sceneggiatura, quella cioè di partire dai singoli elementi per costruire una grande narrazione dall’afflato mitico.