Non sono molti i film che raccontano la piaga del bullismo scolastico, poiché il cinema sembra essere più attento allo studio realistico del conflitto che rientra magari solo in parte nella dinamica della sopraffazione all’interno della scuola.
La regista belga Laura Wandel, dopo il cortometraggio presentato a Cannes Les Corps Étrangers, realizza il primo lungometraggio incentrandolo totalmente nel microcosmo scolastico in cui si costruiscono l’emancipazione dal mondo adulto e l’apprendimento emotivo. Come fosse un quadro sociale di asciutto realismo (in particolare utilizzando l’approccio intimista e umano dei fratelli Dardenne), Wandel racconta la storia di Nora e Abel, sorella e fratello che sperimentano le prevaricazioni fisiche e psicologiche di alcuni compagni di classe e cercano di comprendere il loro posto all’interno dell’istituzione educativa.
L’azione, per i due piccoli protagonisti, sembra svolgersi nell’antro di una prigione di cemento circondata da un cortile e abitata da alleati e potenziali nemici, ed è qui, lontano dallo sguardo vigile degli adulti, che si consumano le violente iniziazioni alle quali sono sottoposti i ragazzini ritenuti più vulnerabili. Nora, nel suo primo giorno di scuola alle elementari, vorrebbe solo rintanarsi tra le protettive braccia del fratello più grande frequentante lo stesso istituto ma ben presto comprende che Abel è preso di mira da bulli senza scrupoli che lo tormentano; la bambina allerta il papà e gli insegnanti ma se il sistema si dimostra sordo alle sue richieste d’aiuto, è lo stesso fratello a imporle il patto del silenzio per evitare pericolose ritorsioni.
La macchina da presa di Laura Wandel si concentra soprattutto sul mondo sensoriale dei bambini, ed è proprio il punto di vista di Nora (Maya Vanderbeque), 7 anni, che osserva la spirale violenta della pianificazione del male. Testimone unica del disagio vissuto dal fratello, si trasforma in “corps étranger” vagante per le la mensa e i corridoi della scuola, sperimentando un senso di impotenza annichilente e assorbendo i suoni e i rumori, il frastuono giocoso della ricreazione e le dissonanze emotive che si alternano nella graduale scoperta di un ambiente in cui gli adulti sembrano i giganti delle fiabe, lontani e indifferenti.
Alcuni sono buoni, come il papà disoccupato dei due ragazzini, umiliato dai discorsi classisti che le coetanee di Nora ripetono senza molta consapevolezza, altri troppo impegnati a preservare il proprio status di dipendente pubblico senza dare peso al fondamentale ruolo educativo e pedagogico che deve svolgere la scuola. Si apre dunque una voragine di senso, metaforicamente rappresentata dalla regista che cala gli studenti in uno spazio sociale ad altezza di bambino, mentre i grandi si chinano sui piccoli corpi con grande difficoltà e più di un inciampo educativo.
Il patto del silenzio diventa così il film manifesto del bullismo, interpretato con vigore e slancio passionale dalla straordinaria Maya Vanderbeque e girato da una regista che ha ben compreso che i ragazzini protagonisti, esploratori di una realtà sociale sporcata dalla crudeltà dei minori e dall’incapacità di contenimento da parte del mondo adulto, non riescono a stare sulle spalle dei giganti.
Sono soli, con lo sguardo mappano il territorio, percorrono il proprio itinerario emotivo e infine selezionano le migliori strategie per dare un senso alle cose e abitare il piccolo mondo istituzionale senza leggi e morale.