Aggiungere nuove riflessioni che suggeriscano una diversa chiave di lettura di Shining mi sembra alquanto arduo, trovandosi di fronte all’opera di un regista che per sua natura si presta a numerose interpretazioni tutte tese a decifrare gli indizi sparsi, i temi ricorrenti, le scelte stiliste, cercando la soluzione di un enigma che lo stesso Kubrick ripudia: “Una vicenda soprannaturale non può essere dissezionata e analizzata troppo da vicino. Ha una sua logica solo se funziona in modo da farvi rizzare i capelli. Se invece state troppo incollati ai dettagli per analizzarli, la vicenda apparirà assurda”.

Sono le parole del regista, a mio avviso, che meglio di qualunque altra ipotesi altrettanto valida, sembrano dare un senso alla “luccicanza” di Shining, film che rientra nei canoni del genere horror affrontati in un’ottica freudiana: “Freud affermò che il perturbante costituisce l’unica sensazione che si provi con maggiore forza sia nell’arte sia nella vita. Se questo genere avesse bisogno di qualche giustificazione, credo proprio che questa basterebbe come credenziale”. (intervista rivista e approvata dal regista nel 1981 pubblicata in Kubrick, Michel Ciment, 1999)

Per perturbante si intende, citando Freud, “quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”, è nel racconto fantastico che maggiormente riaffiorano i contenuti rimossi provocando una sensazione di disagio determinata dall’incerto confine tra realtà e fantasia, “quando appare realmente ai nostri occhi qualcosa che fino a quel momento avevamo considerato fantastico, quando il simbolo assume pienamente la funzione e il significato di ciò che è simboleggiato”.

Diane Johnson, scrittrice e studiosa di letteratura gotica, ha collaborato alla stesura della sceneggiatura, ricorda l’interesse di Kubrick “per il saggio di Freud sulla 'stranezza inquietante', con l’idea del movimento degli occhi e quella delle bambole animate. Freud lo ha sempre interessato, da ciò anche la sua attenzione per Schnitzler. Uno dei temi ai quali era legato era quello del bambino posseduto dagli spiriti maligni, la doppia personalità di Danny e il suo rapporto telepatico con Hallorann”.

Nel saggio sul perturbante citato dalla Johnson ritroviamo il racconto di E.T.A Hoffmann, Il mago Sabbiolino, che Freud utilizza come esempio per affrontare alcuni dei fattori che trasformano l’angoscioso in perturbante, la presenza dell’automa trova le proprie basi nelle credenze animistiche e la figura del mago Sabbiolino, che strappa gli occhi ai bambini, viene associato al complesso di castrazione.

Tra i motivi del perturbante possiamo aggiungere “l’animismo, la magia e l’incantesimo, l’onnipotenza dei pensieri, la relazione con la morte, la ripetizione involontaria e il complesso di evirazione”, l’inconscio che si manifesta sullo schermo mediante la messa in scena di una storia di fantasmi non è altro per Kubrick che la consapevolezza, da parte dello spettatore, di “una promessa di immortalità”, assecondare il proprio coinvolgimento emotivo nello svolgimento della trama significa “accettare la possibilità che esistano degli esseri soprannaturali. Se esistono, allora c’è qualche cosa in più dell’oblio che ci attende oltre la tomba”.

I fenomeni paranormali, perturbanti come tutto ciò che ha a che fare con la morte, rientrano nell’ampio spettro delle esperienze psichiche inspiegabili tra le quali va collocata anche la “luccicanza” di Danny nel film, i suoi poteri telepatici (l’omologia psichica tra due persone rientra nell’ambito del perturbante) secondo il regista non sembrano essere così rari, maggiore attenzione e sensibilità porterebbe chiunque ad affermare di averne avuto anche solo il sentore, “a tutti noi”, afferma Kubrick “è capitato di aprire un libro alla pagina esatta che stavamo cercando o di pensare a un amico un attimo prima che lui ci chiamasse al telefono”. Ma è grazie all’osservazione del comportamento animale, “molto vicino a qualcosa di extrasensoriale”, che la forza di trasmissione del pensiero si manifesta al regista: “Ho una gatta di nome Polly con un pelo lungo spesso arruffato che io devo spazzolare e sforbiciare. Lei lo detesta e più volte mentre stavo accarezzandola e solo pensavo che i nodi erano così fitti che andavano spazzolati, lei, improvvisamente, prima ancora che facessi la benché minima mossa di andare a prendere la spazzola o le forbici, correva a nascondersi sotto il letto (…) Ha quasi sempre dei nodi nel pelo ed io la accarezzo innumerevoli volte, ma è solo quando ho deciso davvero di spazzolarla che lei scappa via e si nasconde”.

Il tema del doppio, infine, ricorre nell’opera di Kubrick (si pensi ai sosia uccisi dai soldati in Fear and Desire, 1953) ennesima prova dell’influenza delle letture freudiane qui incarnate dalla dualità padre-figlio, Danny e il suo amico immaginario, le gemelle, Jack Torrance e il maggiordomo Grady, le simmetrie architettoniche dell’Overlook Hotel e del labirinto in giardino, il continuo riflettersi dell’immagine di Jack negli specchi, Danny e il cuoco Hallorann etc…

Il sosia secondo Freud è “il perpetuo ritorno dell’eguale, la ripetizione degli stessi tratti del volto, degli stessi caratteri, degli stessi destini, delle stesse imprese delittuose e perfino degli stessi nomi attraverso più generazioni che si susseguono (…) Il sosia rappresentava infatti, in origine, un baluardo contro la scomparsa dell’Io, una “energica smentita del potere della morte” (Rank) e probabilmente il primo sosia del corpo fu l’anima immortale”. Questa lunga parentesi sull’interpretazione psicoanalitica della figura del sosia non fa altro che aggiungere significati all’inquadratura finale di Shining, un ricongiungimento metaforico tra Jack Torrance e il suo doppio in una fotografia, testimonianza concreta del soprannaturale che si impone sulla realtà.