La democrazia è un processo complicato. È un esercizio che si nutre di disordine, di dissenso, spesso di rivolte. È un sistema che va verificato, rinnovato, ridiscusso, e i cittadini che la custodiscono sono i primi responsabili e testimoni della sua manutenzione. Un cittadino non può e non deve essere neutrale e, come tale, Aaron Sorkin non è un osservatore neutrale. Il drammaturgo statunitense (Codice d'onore, Nemico pubblico, The Social Network, Molly's Game) scrive e dirige Il processo ai Chicago 7 scegliendo di discutere direttamente con l'America, di ieri e di oggi. La osserva, la investiga, la disseziona e la declama a gran voce. Come Allen Ginsberg che nel 1956 scriveva: «America ti ho dato tutto e ora non sono niente. America quando finiremo la guerra umana?». Il suo paese è il centro della sua scrittura detonante. Sorkin scavalca tutto e va dritto alla fonte.

1968. A Chicago diversi movimenti di protesta e decine di migliaia di contestatori convergono per partecipare a una manifestazione in occasione della convention del Partito democratico. L’assassinio di Martin Luther King Jr. e di Bobby Kennedy, oltre all'esacerbare delle ostilità in Vietnam, con l'aumento drammatico del numero dei caduti americani, sono ferite aperte e sanguinanti. Quello che sarebbe dovuto essere un raduno pacifico si trasforma in un duro attacco alla democrazia: la polizia di Chicago e i manifestanti si scontrano in modo violento a Grant Park e nei dintorni. Un anno dopo i leader della protesta, composti da Tom Hayden (Eddie Redmayne), Abbie Hoffman (Sacha Baron Cohen), Jerry Rubin (Jeremy Strong), David Dellinger (John Carrol Lynch), Rennie Davis (Alex Sharp), John Froiner (Daniel Flaherty), Lee Weiner (Noah Robbins) e Bobby Seale (Yahya Abdul-Mateen II) - quest'ultimo poi scagionato da ogni imputazione - devono affrontare un duro processo politico con l'accusa di cospirazione e di incitamento alla sommossa.

Il processo ai Chicago 7 alterna abilmente scene del processo a filmati d'archivio delle proteste, sessioni di strategia di difesa dell'avvocato liberale William Kunstler (Mark Rylance) e dell'accusa da parte del pubblico ministero Richard Schultz (Joseph Gordon-Levitt). Ma dove si incrociano i fuochi, dove le fiamme divampano e vibrano i roghi è in tribunale. Ogni parola è marchiata nel fuoco, è la matrice, la scintilla, il cherosene giovevole e venefico, capace di instillare dubbi, provocare accese discussioni, ringhiare il disprezzo per gli imputati, esplodere in atti circensi, è capace di offendere alla luce del razzismo istituzionalizzato, di leggere i nomi di chi perisce sotto un fuoco che brucia per davvero.

Aaron Sorkin ha il coraggio di squarciare ogni indugio e metterci dinanzi al racconto di una guerra che non si consuma solo in Vietnam, che non ha confini geografici e neppure temporali, una guerra culturale, politica e di rappresentazione che infuria oggi con la stessa impetuosità. Sorkin discute il processo, discute il rapporto del suo paese con il dissenso, con le istituzioni, discute le ideologie attraverso il conflitto tra Tom Hayden e Abbie Hoffman. La sinistra e l'estrema sinistra si guardano ma non si riflettono l'una nell'altra. Jerry Rubin e Abbie Hoffman, star del movimento hippy, politicizzati, militanti, e Tom Hayden, cofondatore educato e metodico di Students for a Democratic Society, non si fidano gli uni degli altri; hanno posizioni, convinzioni e modi di comunicare e di lavorare agli antipodi. Abbie Hoffman -  Sacha Baron Cohen anarchico e dinamitardo – assieme a Rubin, interrompono spesso il processo lanciandosi in gag continue e disturbanti, con posture ideologiche e umorismo maliziosi. Abbie Hoffman vive dentro e fuori il processo con la stessa sagacia, la stessa irruenza, sempre coerente al suo dissenso, ed è lui ad invocare l'incostituzionalità del processo, sia al banco dei testimoni, quando dice al pubblico ministero che non è mai stato sotto processo per i suoi pensieri, sia al tavolo con gli imputati, decidendo di non alzarsi in piedi all'ingresso del giudice Julius Hoffman (Frank Langella) –  autoritario e guerrafondaio - quando lo stesso decide di legare e imbavagliare Bobby Seale.

Il processo ai Chicago 7 è detonante, è dinamite, è una storia che sprona una nazione a misurarsi con i propri abissi, con la propria vergogna, è un racconto che vive dei suoi luoghi, che raccoglie simboli nell'intersezione degli spazi, il dentro e il fuori come rapporto tra i personaggi, come interazione con la storia. Gli spazi interni sono abitati dagli anni '50, perbenisti, esiziali, borghesi, dentro convivono le discriminazioni, il processo politico, fuori c'è la realtà, gli anni '60, con le proteste, la politica attiva, il sangue – il nostro, come asserisce Tom Hayden - che deve scorrere per tutta la città.