Per concludere l'anno, torniamo a parlare di La La Land, uno dei film più amati dalla redazione, uno di quelli che hanno sublimato la storia del musical (di cui ci siamo tanto occupati, per varie ragioni, nel 2017), una delle opere che più mette in gioco la cinefilia e il cinema come sogno desiderante.

Si potrebbe scrivere un intero saggio su quell’ultimo campo controcampo, lento, dilatatissimo e intenso: per caso Mia s’imbatte nel locale jazz di Sebastian; il momento è di una stasi inverosimile, una specie di raccoglimento interiore fatto di pensieri sussurrati e amori all’ultimo, straziante sguardo prima di lasciarsi coinvolgere dai folli deliri dell’immaginazione. Soltanto sospendendo per un attimo la realtà si comprende tutto il potere evocativo di La La Land, dove anche grazie alla colonna sonora di Justin Hurwitz si respira un’aria di assoluto abbandono sentimentale tra il rimpianto di ciò che è stato e non sarà più. E l’operazione di Damien Chazelle in questo è esemplare: muovendosi vertiginosamente tra strumenti a fiato, intermezzi pop e puro jazz in una swinging L.A. brulicante di sogni stroncati sul nascere e ambizioni,

here's to the ones who dream foolish as they may seem” come recita la canzone di Mia Audition.

Chazelle vi rende giustizia, dando spazio alla rappresentazione del successo e fallimento, indistintamente, per quanto siano categorie soltanto apparenti se lette alla luce della reale essenza dei due protagonisti, ad esempio. Infatti, ogni brano dell’OST è in grado di evocare situazioni differenti, essendo tanto eclettica e composita quanto la regia: il sodalizio tra Hurwitz e Chazelle risulta, in tal senso, indissolubile. Prendiamo nota dell’unicità d’intenti della pellicola già dall’eccentrica overture, così efficace e pervadente da rendere impossibile una qualsiasi forma di distrazione dall’opera filmica. Durante la prima parte, Hurwitz non ci dà requie: il vortice di sensazioni non si arresta e le innumerevoli suggestioni emotive e, soprattutto, cinematografiche di brani come Someone in the Crowd o A Lovely Night rendono lo spettatore partecipe del conflitto dei protagonisti in maniera totalizzante, senza soluzione di compromesso.

Poi c’è la fase un po’ più blues, malinconica per definizione, il lamento d’amore e odio nei confronti della spietatissima ma irrefrenabile City of Stars, avvertito sia da Mia che Sebastian in merito ai loro rispettivi desideri. In questo spaccato, intervallato dal meraviglioso intermezzo del Planetarium che non può non ricordare il cielo stellato in cui Satine e Christian di Mouline Rouge si dichiararono amore eterno, l’atmosfera è lievemente più cupa: la realtà comincia a scardinare le illusioni, momento culminante nel brano interpretato interamente da Mia, Audition. Dal richiamo ai trascorsi parigini della zia all’intemperanza dei “folli sognatori”, il brano unisce – a differenza, ad esempio, del simile compianto di Anne Hathaway in Les Misérables – la nostalgia del tempo perduto al bisogno di ritornare incessantemente su questo passato, vivificarlo e non farlo morire.

E infine l’epilogo, un finale forse tra i più eleganti e belli della recente stagione cinematografica, destinato a rimanere grandioso proprio in virtù di quanto detto poc'anzi, su un potere evocativo che finisce col conglobare tutta la vicenda: da Auditon all’eclettismo degli ultimi brani, fino al campo controcampo finale, lo stesso addio soffocato di Francine e Jimmy in New York, New York inverosimilmente immerso nella stessa atmosfera che crea Jacques Demy in Les parapluies de Cherbourg per il “casuale” e conclusivo incontro tra i due amanti: l’amore e il bene sono immutati, ma ancora una volta non ci è dato capire il motivo per cui aspirazioni e realtà differiscono così tanto, ma La La Land va oltre. Che altro, dunque, se non un ultimo, folle balzo dell’immaginazione?