Anno Domini 2002, ultimi scorci dell’era pre-social, Christine (Saoirse Ronan), auto ribattezzatasi ‘Lady Bird’, frequenta l’ultimo anno del liceo cattolico Cuore Immacolato di Sacramento ma sogna di fuggire dall’asfissiante provincia alla volta dei poli culturali del paese, “New York, o almeno il Connecticut”. Tra funzioni religiose, lezioni di matematica, laboratori teatrali ed inquietanti seminari anti-abortisti vive i primi tormenti amorosi divisa fra il dolce Danny (Lucas Hedges), il ragazzo di buona famiglia, anche troppo per lei che viene “dalla parte povera dei binari” e il tenebroso Kyle (Timotnée Chalamet), teenager dal radicalismo di facciata che si atteggia a pensatore controcorrente. Attorno a lei gravitano una galassia di sfaccettati e teneramente imperfetti personaggi, l’autoritaria madre Marion (Laurie Metcalf) alla quale la lega un rapporto conflittuale ma profondissimo, il mite e complice papà Larry (Tracy Letts), la fedele e rassicurante amica Jessie (Beanie Feldstein), il tormentato preside scolastico Padre Leviatch (Stephen Henderson).

Greta Gerwig, ragazzona della West Coast dalla faccia simpatica e i modi un po’goffi, si è imposta nell’ultimo decennio come la golden girl del cinema indipendente americano, altrimenti noto come mumblecore, soprattutto grazie al felice sodalizio, sentimentale e artistico, con Noah Baumbach. Con l’autore newyorkese affila i ferri del mestiere di attrice e autrice, firmando la sceneggiatura di Mistress America e Frances Ha, piccola perla di cinematografia contemporanea e perfetta sintesi stilistica di un’intera generazione di trentenni sospesi, precari, con lo sguardo perennemente e malinconicamente teso a un passato mitico.

Un esordio solista alla regia - nel 2008 aveva co-diretto Nights and Weekends insieme all’altro mentore Joe Swanberg - destinato a non passare inosservato come testimoniano le cinque candidature agli Oscar, quinta donna a imporsi all’attenzione dell’Accademy nella categoria miglior regia - la prima fu Lina Wertmüller nel 1977 - due Golden Globes vinti e gli ottimi incassi negli Stati Uniti dove il film è uscito lo scorso novembre. Lady Bird è un racconto di formazione, terreno cinematografico storicamente fertile per le facili retoriche ed i più imbarazzanti scivoloni sentimentalisti, curato, asciutto e scorrevole grazie a un’ottima sceneggiatura. Nonostante l’estetica spiccatamente indie la Gerwig non cede neanche per un attimo al fallace richiamo del revival patinato che affligge molta dell’attuale produzione d’oltreoceano. “Secondo te sembro una che viene da Sacramento?” si preoccupa Christine, ancora inconsapevole che quell’impulso alla fuga sarà invece la prima vera tappa di riappacificazione verso le radici rinnegate.

Ma è troppo presto per capire perché il mondo adulto sembra voler ridimensionare ogni suo legittimo sogno e così l’euforia sconsiderata che accompagna il primo bacio è subito ridimensionata dai problemi economici famigliari, il sogno di essere ammessa ad un prestigioso college stroncato sul nascere dalla sfacciata risata della tutor scolastica, la speranza di trovare un abito carino per il ballo nel reparto occasioni di un grande magazzino, disillusa dallo sguardo di disappunto di Marion. Un rapporto madre-figlia connotato di spiccato realismo, fatto di aspri contrasti, insanabili divari, dialoghi frammentari e argomenti taciuti perché semplicemente troppo imbarazzanti per essere affrontati. Ma le due donne sono anche capaci di condividere anche attimi di toccante intimità come il commuoversi all’ascolto delle audio letture di Furore, il grande racconto americano di John Steinbeck.

Lo spirito di una nazione emerge in Lady Bird dai televisori perennemente accesi sulle breaking news dal fronte che risuonano costanti e vacue disperdendosi nell’etere assieme alla debole consapevolezza di un popolo di fronte a una guerra combattuta, in nome della sicurezza del popolo americano, da qualche parte in Asia occidentale.