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Speciale Barbie II – Tra dress code e valore politico

Un’opera che fa ridere tutti, riflettere alcuni e soprattutto sbeffeggia quelli che in questo branded movie riconoscono solo una mossa per guadagnare sulla lotta per i diritti e non quello che Barbie di fatto è: un lavoro che ci insegna a non prenderci troppo sul serio – perfino quando sui corpi delle donne e delle minoranze di genere si fanno delle guerre, quando non si può girare serenamente per strada, quando non viene riconosciuto il valore del proprio lavoro e quando già solo esistere si trasforma in un atto politico.

Speciale Barbie I – Tesi e antitesi

Il carattere illusorio della vicenda è messo immediatamente in chiaro da Greta Gerwig nel suo film attraverso la voce fuori campo, che ci conduce all’interno dell’utopica ginecocrazia di Barbieland, dove le Barbie occupano tutte le cariche istituzionali e svolgono le mansioni lavorative più prestigiose. Nell’atmosfera si respira tutta la critica della regista verso un modello di femminismo radicale, satiricamente rappresentato a metà tra un regime dittatoriale e la fase primordiale dell’infanzia in cui il bambino si sente un unicum con l’ambiente circostante.

“Piccole donne” – Perché sì

La Gerwig propone una versione moderna del romanzo servendosi di una narrazione alternata tra passato e presente; questo espediente conferisce una rinnovata dinamicità alla storia, identificabile principalmente nella prima parte della pellicola. La messa in scena di eventi passati è caratterizzata da una contagiosa vitalità e il potere comunicativo delle protagoniste è tale da fuoriuscire dai limiti imposti dallo schermo. A questo si oppone un presente dai toni più sommessi e pacati. A rafforzare questa dualità contribuisce anche l’uso dei colori, accesi e brillanti nei flashback e più cupi quando le sorelle March si separano. Il contrasto sembra voler simboleggiare il rapporto antitetico tra adolescenza ed età adulta: se a caratterizzare la gioventù è un certo idealismo, crescere comporta un abbandono delle illusioni a cui segue una presa di coscienza della realtà.

“Piccole donne” – Perché no

In Piccole donne tutto “quadra” e tutto è minutamente cesellato e rifinito ad esempio nell’impianto formale, dalla stratificazione spazio-temporale alla fotografia, la colonna sonora di Desplat onnipresente ed enfatica. Un film di figure fin troppo definite che vive delle implicazioni culturali che lo sostengono e delle splendide prove attoriali ma che manca, se non per qualche parentesi (la morte di Beth, il ritorno del padre delle sorelle), di vitalismo e sentimento nella riproposizione della storia di Louisa May Alcott, come se Gerwig si fosse preoccupata di realizzare unicamente il solo e perfetto lavoro di adattamento, per quanto alla fine risulti inappuntabile.

Greta Gerwig e “Il piano di Maggie”

Continuiamo nel nostro viaggio dentro la filmografia di Greta Gerwig. Scritto e diretto da Rebecca Miller, basato su un racconto di Karen Rinaldi, Il piano di Maggie è una commedia romantica che rifugge però gli stilemi più classici del genere, in quanto evita accuratamente situazioni gratuitamente agrodolci o l’happy ending accompagnato da un motivetto orecchiabile in sottofondo. I personaggi principali del film sono ben delineati, a partire dalla Maggie del titolo, interpretata da una Greta Gerwig manipolatrice e goffamente spontanea al tempo stesso. Una donna assolutamente imperfetta, piena di incertezze, ma allo stesso tempo determinata a dare una direzione alla propria vita.

“Le donna della mia vita” tra Bening e Gerwig

Il senso de Le donne della mia vita lo possiamo intuire recuperando il titolo originale del terzo film di Mike Mills. 20th Century Women mette il secolo accanto alle donne, il tempo che scorre inesorabile e dolce addosso alle persone. Se nel suo film precedente, l’indimenticato Beginners, c’era un padre che metteva alla prova il figlio, qui il rapporto è ribaltato e mette al centro una madre, che quotidianamente, ammettendo le proprie difficoltà nell’accompagnare in solitudine il ragazzo verso la vita adulta, si chiede come si faccia “a diventare un brav’uomo”. Annette Bening fuma le Salem leggere, calza le Birkenstock, indossa i pantaloni come li porterebbe Katharine Hepburn e, così apodittica, preoccupata, ruvida, umanissima (“Credo soltanto che avere il cuore spezzato sia un modo terribile per sapere come va il mondo”; “Chiedersi se si è felici è il primo passo verso la depressione”), è indimenticabile.

Greta Gerwig tra “Frances Ha” e “Lady Bird”

Riavvolgendo il nastro dal momento in cui Frances Ha scrive il suo nome sulla cassetta della posta dell’appartamento in cui andrà a vivere, instabile come sempre ma con qualche timore in meno, eccoci a Sacramento: Greta Gerwig fa un passo indietro, da New York City si ritorna dove tutto ebbe inizio, o meglio, al momento spartiacque di tutta la sua vita e lo fa affidandosi al corpo e all’anima di Saoirse Ronan. Christine “Lady Bird” McPherson è Frances dieci anni prima della turbolenta convivenza con Sophie, dei tentativi con la danza e del perenne senso di inadeguatezza che si trova ad affrontare un animo “raro” come il suo, alle prese con gli spasmi della vita newyorkese.

L’eroina apatica di “Lady Bird”

È estremamente comprensibile il motivo dell’accoglienza così calorosa verso questo film, che è apparentemente semplice e lineare. La Gerwig ha infatti creato una tela su cui disporre tematiche come l’aborto, l’omosessualità, la religione, il suicidio, e le ha abilmente intrecciate. Ha realizzato così un film che, al primo impatto, sembra narrare solo di un’adolescente e del suo rapporto controverso con la madre, ma che successivamente, se sottoposto ad uno sguardo più vigile, si fa rivelatore di altre tesi. Questioni che non vengono né approfondite, né  drammatizzate, ma che propio per questo accadono come se non potessero far altro: sono un tutt’uno con la fabula e con la sua concretezza visiva.

Il racconto di formazione di “Lady Bird”

Un esordio solista alla regia – nel 2008 aveva co-diretto Nights and Weekends insieme all’altro mentore Joe Swanberg – destinato a non passare inosservato come testimoniano le cinque candidature agli Oscar, quinta donna a imporsi all’attenzione dell’Accademy nella categoria miglior regia – la prima fu Lina Wertmüller nel 1977 – due Golden Globe vinti e gli ottimi incassi negli Stati Uniti dove il film è uscito lo scorso novembre. Lady Bird è un racconto di formazione, terreno cinematografico storicamente fertile per le facili retoriche ed i più imbarazzanti scivoloni sentimentalisti, curato, asciutto e scorrevole grazie a un’ottima sceneggiatura.