È entrato a far parte del patrimonio della Cineteca di Bologna, un piccolo, ma prezioso archivio, testimonianza della carriera di attrice-bambina, della bolognese Maria Letizia Pascoli detta Mariù. Grazie alla donazione delle figlie Anna Carlotta, Chiara, Giovanna, Margherita e Maddalena, sono ora disponibili alla consultazione presso la Biblioteca Renzo Renzi  le sceneggiature originali, la corrispondenza, il materiale pubblicitario e le oltre duecento fotografie del fondo. Infine, la documentazione d'epoca è accompagnata dalle memorie scritte da Maria Letizia che lascia ai posteri uno spiritoso ritratto di sé bambina e uno scorcio inedito sul mondo del cinema italiano a cavallo tra il periodo bellico e post-bellico, costellato di gustosi aneddoti. Ne cominciamo da oggi la pubblicazione.

 

1. Mariù Pascoli, detta Mariù

Sono nata a Tripoli il 1° gennaio 1935, quando la Libia era una colonia italiana. Ho passato in quella città i primi anni della mia vita, poi sono arrivata per nave in Italia, a Genova e quindi a Bologna, perché la mia sorella maggiore doveva andare all'Università e il capoluogo emiliano era sede del migliore ateneo italiano per quello che riguardava la medicina. Oltre al fatto che mio padre era allora Capitano dei Bersaglieri e Bologna era sede di un Reggimento di quel corpo militare. A Bologna trovammo un appartamento nella centrale via San Felice. Per quei tempi era moderno (ascensore, doppi servizi) e non mi sembrava brutto. In questo appartamento passai il primo inverno italiano della mia vita, uno dei più gelidi che io ricordi.

Il giorno dell'Epifania del '40 era particolarmente freddo e io andai fuori con un paio di calzettini corti perché avevo delle belle gambette da mostrare ai passanti, gambette che in breve tempo diventarono paonazze. Proprio all'inizio di via Ugo Bassi, dovetti fermarmi in una pasticceria che c'è ancora adesso (credo si chiami Gamberini) dove con una cioccolata bollente e con tovagliolini di carta scaldati sulla colonna lucente della macchina dell'espresso cercarono di far passare l'assideramento a quella povera africana al primo impatto con l'inverno padano. Ma non poterono certo evitare la bronchite con febbre a 40 che mi colse il giorno seguente.

Chiamarono il dottor Monteguti, un signore molto distinto, con occhiali cerchiati d'oro, un po' corpulento e che a me sembrava molto vecchio (poteva avere una cinquantina d'anni). Allora chi aveva la febbre doveva stare digiuno o al massimo prendere dei brodini di pollo oltremodo schifosi, fu così che, quando guarii quindici giorni dopo, le mie belle gambette si erano ridotte abbastanza male e così mia sorella Iane, che mi allevava come avrebbe fatto poi nella sua vita con una fitta schiera di cani, mi costrinse a girare per casa con i calzoni del pigiama, onde non avere la vista turbata dalla mia magrezza.

Mi accorgo adesso di non avere ancora parlato delle mie tre sorelle, tutte molto più grandi di me. La prima era addirittura a distanza stratosferica dai miei cinque anni. Era al primo anno della Facoltà di Medicina e l'Università a me sembrava un posto remoto, popolato da persone serissime che certamente non ridevano mai. Le altre sorelle erano un po' più abbordabili: infatti, pur frequentando il Liceo Minghetti (secondo in città solo al prestigioso Galvani), ascoltavano la radio (mia sorella Franca, somarissima a scuola, era una accesa ammiratrice di Alberto Rabagliati, voce d'oro di quegli anni) e compravano un giornalino verdognolo chiamato "Canzoniere" dal quale però mi avevano insegnato solamente la canzone "Maramao". Quando mettevano da parte qualche liretta, andavano al cinema dove si vedevano film (si suggeriva la dizione "filmi" molto più italiana e in linea con le indiscutibili e intelligenti direttive del Partito) interpretati da divi autarchici, ma indubbiamente fascinosi: Amedeo Nazzari, rappresentante di una maschia forza italica, ma anche molto simpatico, come ebbi la ventura di constatare più tardi di persona, ma superato in attrattiva dall'ambiguo Osvaldo Valenti, che doveva di lì a qualche anno fare una fine abbastanza miseranda.

Cinematografia autarchica a parte, io ero stata fortemente colpita da Cime tempestose che nella traduzione italiana suonava La voce nella tempesta con il protagonista che si chiamava Laurence Olivier e che, in barba alla mia giovane età, amavo pazzamente e a cui pensavo a lungo prima di addormentarmi. Al cinema avevo visto anche Biancaneve e i sette nani e mi ero molto spaventata per la scena nel bosco in cui Biancaneve era terrorizzata dagli alberi che si animavano e sembravano assalirla. Avevo pianto, dimostrando una volta tanto la mia età. Avevo anche imparato le slagnose canzoni del film e, sempre con mia sorella Iane che era un po' il mio Pigmalione, facevo delle piacevoli scenette interpretando la parte della disgustosa giovanetta mentre lei cantava la parte del Principe nella canzone "Non ho che un canto". A poco a poco il nostro repertorio si ampliò comprendendo, oltre alle musiche di Frank Churchill e al già citato “Maramao”, anche il delizioso valzer "Vienna Vienna", divenuto popolare grazie alla simpatica amicizia che correva in quegli anni con l'alleato e camerata germanico. Viste le mie disinvolte interpretazioni, la famiglia si convinse a poco a poco che la più piccola delle sorelle Pascoli era certamente un piccolo genio e che ben presto Shirley Temple sarebbe stata surclassata dalla sua bravura.

Devo precisare che le mie esibizioni canore erano sempre accuratamente censurate: ad esempio nella canzone che credo si chiamasse "Piccolo chalet" (cito a memoria e quindi non sono sicura che si chiamasse così) c'era una frase che diceva: "prenderemo il tè sorseggiando palpiti e passion". Mia sorella Iane che aveva un notevole senso poetico, l'aveva trasformato in "prenderemo il tè con molto zucchero e limon". La morale e la mia innocenza erano salve. Intanto era giunta la primavera, gli alberi del viale di circonvallazione si erano riempiti di foglie e il portico di via San Felice del vociare dei soldati di cavalleria della vicina caserma. Affacciate alla finestra del nostro quarto piano li sentivamo parlare e, per via del loro intercalare meridionale, li avevamo soprannominati "mannagge". Povere “mannagge”, di lì a poco in Russia avrebbero avuto modo di morire con dignità e senza un perché.

Le scuole stavano per finire. Iane avrebbe avuto una dignitosa "mezza esenzione", con una buona media del sette. Franca invece, sempre in lotta perdente con l'obbligatorietà della scuola, avrebbe incominciato una lunga serie di permanenze nelle "private" della città. Tornava a casa sempre furiosa contro la compagna Lovato che nascondeva con la mano il compito di matematica, perché la Pascoli, ultima della classe, non potesse copiare i capolavori della prima. Mia sorella aveva la pericolosa tendenza a legarsi con le compagne più discole e questo era già incominciato già a Tripoli, quando mio padre tuonava contro una certa Fagà alla quale si imputava persino la scoliosi di mia sorella che pare stesse per buona parte della mattinata scolastica rivolta malamente verso il banco della compagna dalla quale otteneva anche romanzetti dal contenuto pericoloso. Anche a Bologna aveva fatto una grande amicizia con Sara, che non piaceva per niente a mia madre, per l'uso abbondante di rossetto, per le zeppe di sughero stratosferiche e per i discorsi troppo evoluti per l’epoca.

Mia sorella Annamaria si stava preparando ai primi esami universitari e temeva soprattutto quello terribile di anatomia. Rientrava a casa raccontando storie spaventose della sala anatomica: sangue, ossa, muscoli vari, tutte cose che mi riempivano di sgomento. Francamente facevo fatica a condividere il suo entusiasmo.

Intanto era arrivato giugno e il dieci di quel mese andammo in casa di amici, in un palazzetto di via Marsala dove si era radunata parecchia gente in attesa di un discorso del nostro capo, il Duce. Sento il calore dell'estate incombente, mi rivedo piccola in mezzo a molte persone giovani e meno giovani, tutte in attesa di comunicazioni che sentivamo molto importanti. La voce tonante e autoritaria scandiva il destino di un popolo entusiasta e urlante che solo cinque anni più tardi l'avrebbe giustiziato e avrebbe sancito la fine del regime. Io me ne stavo lì zitta zitta davanti a questi fatti tanto più grandi di me.

"Come ti chiami?" mi chiese un signore.

"Mariù Pascoli detta Mariù", risposi io un po' intimidita, dimenticando di specificare che ero Maria Letizia detta Mariù. Quell'errore, tanto piccolo data la mia età, a me sembrò così gigantesco che ancora adesso lo ricordo e ancora adesso mi sembra più grave di quel che non fosse la dichiarazione di guerra.

Nella foto: Mariù in uno scatto di famiglia, [1940]