Ecco la seconda puntata del Romanzo di Mariù. Potete leggere la prima qui

 

Se putacaso venisse la guerra...

La guerra si era già annunciata da tempo e a questo proposito era passata alla storia una mia frase che faceva molto ridere i grandi: "se putacaso venisse la guerra" dicevo con grande serietà. Certamente era stato in vista di quel "putacaso”, oltre che per le già citate vicende universitarie di mia sorella, che eravamo tornate in Italia, mentre mio padre era rimasto in Libia con i suoi ascari in attesa di un eventuale attacco nemico.

Ricordavo con accoramento la partenza da Tripoli, l'ultima sera che avevamo passato nella casa di via Lazio 382, con le casse militari già chiuse per il trasloco e le candele che illuminavano tristemente l’appartamento ormai vuoto di mobili. Per salutare la nostra partenza su di una cassa c'era un vassoio di paste multicolori e una bottiglia di spumante. Mio padre ci aveva accompagnato al porto che era già notte e, stando sul ponte della nave che ormai si allontanava dalla costa libica, lo vedevo rimpicciolire con pena chiamando "papà" con la vaga e inutile speranza che sentisse il mio richiamo piangente. Soffrivo tanto che nella cabina stetti poi male tutta la notte, vomitando le belle paste multicolori della festa d'addio.

Allora pensavamo che saremmo tornate a Tripoli in una villetta nuova, ma ora so con sicurezza che Tripoli non la rivedrò più per non alimentare le ire del colonnello Gheddafi che, non senza qualche ragione, mi considera una sporca colonialista. Anche se la mia unica colpa è quella di essere stata concepita in una terra non mia da due genitori che certamente erano molto felici di rivedersi dopo diversi anni di forzata separazione.

Papà adesso era rimasto solo e desiderava una fotografia aggiornata della sua famigliola, soprattutto della piccola Mariù che, come tutti i piccoli, era certamente la sua preferita. Fu così che decidemmo di andare dal fotografo, in un negozietto di via Indipendenza, tutte cinque in fila le donne di casa Pascoli: la mamma con un sorrisetto arguto e compiaciuto da Madama Dorè, Annamaria con una corona di trecce tipo diadema, Iane con un’unica treccia pendente, Franca con un'aria languida (forse pensava a Rabagliati) e io con un cagnolino nero in mano e un fioccone nel bel mezzo della testa, come allora si usava per le bambine.

Visto che papà desiderava una mia immagine particolare il fotografo mi riprese in due pose diverse e a mio parere non molto riuscite, visto che tutto l'insieme del "salone" era abbastanza provincialotto. Foto che di lì a pochi mesi dovevano segnare una svolta inaspettata e sorprendente nella mia vita e in quella della mia famiglia.

Durante l'estate comparve sui giornali un avviso che segnalava la ricerca di una bambina per la parte di Ombretta nel film Piccolo mondo antico, che stava per essere messo in cantiere. Il regista era Mario Soldati e gli attori erano di tutto rispetto visto che Luisa sarebbe stata l'emergente Alida Valli, affiancata da Massimo Serato, uno dei belli del momento.

Mia sorella Iane, sedicenne, sempre tesa a valorizzare le doti della sorellina minore, non ci pensò due volte e, all'insaputa di mia madre, spedì le mie foto che da “ricordo per il padre lontano” diventarono fonte di successo nel mondo del cinema. Arrivò la convocazione a Roma: su tremila concorrenti ne erano state scelte pochissime (ora non ricordo bene se fossero sette o dodici) e naturalmente si doveva fare un provino per la scelta definitiva. Partimmo quindi per Roma, io, la mamma e Iane sicure di trovare quei divi ammirati tante volte sulle riviste che parlavano di cinema, che allora, non so perché, erano stampate con degli strani colorini, o blu o nocciola scuro. Trovammo invece l'austero Annibale Betrone, attore teatrale di vecchio stampo, scelto per la parte dello zio Piero che doveva fare una scena importante con Ombretta.

Cinecittà era bellissima, ultramoderna e fornita di tutte quelle cose che potevano lasciare stupefatte delle provinciali come noi. File di camerini elegantemente arredati, sale da trucco, due ristoranti uno per gli attori ed i registi, l'altro per le comparse, numerosissimi capannoni attrezzati per poter girare diversi film (o filmi) contemporaneamente. Mi stupivano soprattutto quelle lampade gigantesche che una volta accese facevano un caldo tremendo e anche il fatto che ci fossero delle stanze già preparate nei teatri di posa, con tavole sedie e mobili vari che mi ricordavano quei fogli pieni di disegni che mi faceva Iane quando era libera da impegni scolastici.

"Mi fai la casa?" domandavo e lei faceva tutto l'arredamento che desideravo, dalla camera da letto alla cucina alla sala da pranzo con buffet e controbuffet decorati con piantine di cactus che allora erano molto di moda. C'è da dire che mi faceva anche una serie di bamboline di carta che poi colorava e ritagliava e che ho ancora in una scatolina, bamboline vestite con l'eleganza tipica dell'epoca: volpi negligentemente appoggiate sulla spalla, larghi cappelli con veletta tipo vamp cinematografica, scarpe con zeppe di sughero e anche cagnolini al guinzaglio. Io mettevo il nome a tutte e anche l'età che facevo scrivere sul retro delle figurine. Dato che erano molte fragili e che io giocavo quasi esclusivamente con loro, Iane era disposta anche a creare delle "protesi", cioè fogli interi di piedi, braccia e qualche volta anche di teste con un cappello vezzosamente sulle ventitré. Poi con molta pazienza le incollava sulle bambole infortunate.

 A Roma restammo per qualche giorno, alloggiate in una pensione vicino alla stazione Termini e mia madre, nonostante fosse cattolica praticante, seguendo la migliore tradizione superstiziosa, si fece cambiare di camera essendole stata assegnata la numero diciassette. Non so se per via del cambiamento di numero o per le mie particolari virtù, le cose si misero subito molto bene. La produzione voleva vedere come si comportavano le bambine convocate anche al di fuori dell'ambiente cinematografico e così ci lasciò giocare negli ampi giardini di Cinecittà. C'è una foto che ci ritrae mentre facciamo il girotondo intorno a una giovane attrice impegnata nella realizzazione del film Addio giovinezza, Maria Denis. Un pomeriggio ci portarono allo zoo e anche lì sono fotografata mentre porgo del cibo, devo dire con un certo timore, a un’imponente giraffa. Ci sono in bella mostra le mie lunghe gambe e in un’altra durante la vestizione in vista del provino, sono imbarazzata dal fatto di essere fotografata in mutande, con treccine per me inconsuete visto che ero abituata a dei lunghi e ingombranti boccoli che mi vennero poi riassegnati all'atto delle riprese del film. Mi avevano messo un grembiulino di rigatino con un largo collettone, stivaletti scuri durissimi e mutandoni che spuntavano dall'orlo del grembiule. Mi avevano assegnata una parte piuttosto difficile da imparare a memoria e mia madre si era affannata ad insegnarmela. Fu così che imparai la famosa “Ombretta sdegnosa del Missipipì non far la ritrosa ma baciami qui”. Allora non sapevo che quella "Ombretta sdegnosa" era una frase che compare in un'opera rossiniana.

Venne il giorno atteso e temuto del provino e io me la cavai egregiamente, cioè malissimo per quello che si può vedere anche nel film, ma probabilmente allora non si pretendeva di più da una cinquenne. E se pensiamo ai miracoli di naturalezza dei bambini di Sciuscià o di Bellissima, dobbiamo ammettere che probabilmente il merito va attribuito ai registi stessi.

Molti anni dopo ricevetti una telefonata da un amico che sghignazzando mi raccontava che in un'intervista apparsa su 'Repubblica' Alberto Lattuada, che era l'aiuto regista e co-sceneggiatore del film, diceva che il suo maggior desiderio all’epoca era stato che la bambina che interpretava Ombretta si fosse inabissata sul serio nelle acque del lago. Confesso che, nonostante l'età ormai più che matura, mi dispiacque che si potesse avere tanto malanimo verso quella povera bambina che, nel tempo, era diventata quasi una mia figlia. Ad ogni modo si vede che le altre concorrenti erano addirittura peggiori di me, così che venni scelta per la parte fondamentale della piccola romantica Ombretta.

Ho nominato prima quello splendido film che è Bellissima e voglio dire che l'atmosfera evocata da Visconti nelle scene del provino, con le madri assatanate che ritengono le loro pargole come uniche degne dell'attenzione del regista Blasetti (grande interprete di se stesso), era esattamente quella in cui mi sono trovata io a Cinecittà. Vista l'attenzione che Soldati e gli altri personaggi importanti mi dedicavano, le genitrici mi avevano scatenato contro le povere figlie che mi facevano scherzi maligni e cercavano di graffiarmi. Io non capivo il perché di tanto accanimento e fu così che da allora e per molti anni non ebbi più molta fiducia nei miei coetanei. Ma intanto ero stata contagiata dall'atmosfera viziata dal desiderio di successo, mi ero molto divertita e una volta tornata a casa non mi rassegnavo al "pensionamento", per ridicola che possa sembrare questa parola. La convocazione al provino era arrivata con un telegramma e ora attendevo tutti i giorni con ansia il suono del campanello.

Alla fine il campanello squillò. Il premio per chi aveva segnalato la vincitrice del concorso consisteva in una somma di tremila lire, cifra notevole per l'epoca. Toccò naturalmente a Iane, sbalordita e felice.

Nella foto: telegramma di Federico Patellani, produttore insieme a Carlo Ponti di Piccolo mondo antico (M. Soldati, 1941), che annuncia la buona novella a Maria Letizia detta Mariù, 4 settembre 1940.