Ecco la quinta puntata del Romanzo di Mariù. Potete leggere le altre qui. 

Al ristorante con Visconti

Giunto il '43, venni chiamata ad interpretare una parte nel film Gran Premio, una storia balorda di corse, cavalli, fanciulle campagnole povere, veterinari affascinanti e vicini di casa prepotenti. Questa volta l’autrice era Luciana Peverelli, un’altra scrittrice di romanzetti 'femminili'. La Spagna, nostra amica e furbescamente rimasta neutrale (cosa che le permise di mantenere per un quarantennio il suo meraviglioso regime) invece di truppe ci riforniva di attori e così in questa produzione vi erano ben due iberici: il simpatico Luis Hurtado che interpretava il ruolo del padre delle due protagoniste (Mariù e la giovane e graziosa Luisella Beghi) e Juan de Landa, un attore di notevole stazza che forse qualcuno ricorderà tra i protagonisti di Ossessione, il vicino di casa che non mi ricordo perché litigasse col simpatico padre. Il veterinario che si prendeva cura del cavallo Reuccio era l'affascinante Claudio Gora, purtroppo innamorato della sorella maggiore. Dico purtroppo perché mi ero presa una terribile cotta, forse la prima della mia vita (dico forse perché per una ragione o per un'altra ero sempre innamorata) e quindi aspettavo con ansia le scene che dovevamo fare insieme. Credo che proprio in quegli anni anche Liz Taylor interpretasse un film dallo stesso titolo, e che fosse appena un po' più grande di me. Certo che la differenza tra le due dive era certamente costituita dal colore degli occhi che io non avevo viola, dal possesso di diamanti (i gioielli mi hanno sempre portato disgrazia perché o li ho persi, o li ho venduti o mi sono stati rubati) e dal fatto di avere avuto sette mariti. Trovo che uno basta e avanza, santo cielo, al massimo due, ma proprio al massimo.

Mentre eravamo impegnati nelle improbabili vicende di Stellina e compagni, la guerra si andava facendo sempre più invadente, molto spesso non c'era benzina per le auto che ci dovevano accompagnare a fare gli esterni nella campagna romana e anche l'energia elettrica era estremamente precaria, tanto da dover spesso girare nelle ore di sole perché le lampade non bastavano. Tra l'altro si era in pieno inverno e la vicenda del film era invece tutta estiva, faceva un freddo schifoso e dovevamo bere dell'acqua gelata prima di dire le battute perché non uscisse fumo dalle nostre labbra.

Gli interni si giravano a Cinecittà e Roma era la mia prediletta, splendida anche in tempo di guerra, piena di luce e di superiore grandezza. Alloggiavamo, la mamma e io, all'albergo Pace Helvezia, in via IV Novembre, molto elegante e rispettabile. Mi ricordo che c'era anche il medico personale di Sua Maestà il Re, un signore molto distinto e vestito sempre con una foggia démodé. All'ultimo piano c’era l'abitazione dei proprietari dell'albergo, i signori Spada. Io giocavo con uno dei loro figli, il piccolo Lele e andavo a trovare sua sorella, una ragazzina già abbastanza grande e inferma che stava sempre a letto su in quel loro appartamento, in una stanza dalla tappezzeria di carta a rose di tutte le dimensioni. Era una stanza strana, con scaffaletti bianchi nei quali erano appoggiate innumerevoli bambole vestite con costumi regionali. Provavo una strana sensazione mista di fascino e di paura quando entravo in quella camera, perché pensavo che Mariantonia, stesa immobile in quel letto di ottone, facesse parte essa stessa della schiera di bambole immote. Pensavo nella mia ingenuità che forse un giorno le bambole e Mariantonia si sarebbero alzate insieme per girare intorno nella camera che le ombre della sera romana andavano riempiendo di angoli oscuri.

Su e giù per le scale del 'Pace' correvo con Lele e anche con il piccolo Tao, un altro bambino prodigio che si era affermato in quegli anni e con il quale avrei dovuto incominciare a girare nel settembre del '43 una trasposizione cinematografica delle "Confessioni di un italiano" di Ippolito Nievo, nella importantissima parte di Pisana. Il piccolo Tao avrebbe poi fatto una bella carriera d'attore, con il suo nome di Paolo Ferrari. Pisana da grande era già stato stabilito che dovesse essere Luisa Ferida, attrice che avevo conosciuto mentre girava a Cinecittà La corona di ferro di Alessandro Blasetti. Ero entrata per vedere le riprese e la Ferida, una donna bella e molto volgare sia nell'aspetto che nel parlare mi aveva accolto con grande cordialità: stava mangiando un maritozzo e se l'era tolto di bocca per offrirmelo con un 'tò' di benvenuto. Figurarsi la piccola Mariù così bene educata e rispettosa delle norme igieniche! No grazie, naturalmente. Supportata dal commento degli operai: «Brava pupetta, chesse crede d'esse quellallì, non sei mica il suo cane!».

Intanto era venuta la Pasqua e mio padre, promosso tenente colonnello, aveva assunto il comando del VI reggimento bersaglieri di Bologna, mentre parte del contingente era partito per la Russia, dove sarebbe stato decimato. Papà era tornato e in una freddissima giornata d'inverno era stato aperto apposta per noi il cinema Contavalli e in mattinata era stata proiettata la mia opera omnia cinematografica, vale a dire Piccolo mondo antico e La fuggitiva tutti di seguito in quanto papà, essendo in Libia, non aveva visto i capolavori della sua figlia minore. Era molto emotivo, nonostante il suo mestiere di soldato, e le mie ripetute morti e disgrazie lo avevano fatto piangere copiosamente durante la proiezione. Mi era poi venuto a trovare a Roma e la sua divisa caki, tipica delle truppe coloniali, aveva attirato l'attenzione di alcune comparse che gli avevano chiesto in quale film lavorasse.

A Roma dunque facevo il mio terzo e, devo dire, bruttissimo film che giustamente sarà stato mandato al macero. Di esso però mi ricordo un calcetto per fortuna leggero ricevuto dal cavallo Reuccio (che tra parentesi era una cavalla non so perché, forse fidandosi delle scarse conoscenze anatomiche degli spettatori) e l'amore già citato verso il bellissimo e simpatico Gora che ho visto poi con dispiacere in vecchiaia impiegato in parti di uomo abbastanza laido e ambiguo.

Cinecittà, anche se eravamo in pieno periodo bellico, brulicava di attività perché la gente voleva distrarsi dalla realtà e si immergeva volentieri nelle assurdità che il cinema offriva, affollando le sale e seguendo sui giornali appositi le vicende degli attori preferiti, come fa adesso per gli eroi televisivi. A fianco dei tanti film-spazzatura girati all’epoca, c'è da dire che alcune produzioni osavano cose che sono rimaste nella storia del cinema. È il caso del già menzionato Ossessione e io ricordo bene Luchino Visconti con il suo staff al ristorante di Cinecittà. Finito di mangiare, avevo l'abitudine di andare da un tavolo all'altro per scambiare qualche chiacchiera con i cosiddetti 'colleghi', ma mi avvicinavo con timore al tavolo di Visconti, che trovavo vagamente pauroso e forse ostile nei confronti di quella bambina un po' petulante. Non sapevo allora che sarebbe diventato il mio regista preferito.

Trovavo invece simpaticissimo il caro Amedeo Nazzari che aveva il camerino poco lontano dal mio ed era sempre disposto a scherzare con me, con semplicità e rispetto per la mia infanzia, infanzia che forse neanch'io, ormai abituata a quel mondo fittizio, sapevo di possedere. Ricordo che le mie sorelle, entusiasmate dalla mia amicizia con il divo Nazzari, mi fecero portare dopo il Natale un ramo di vischio come omaggio, ramo che lui simpaticamente appese nel suo camerino. C'erano anche delle giovani attrici con le quali andavo d'accordo e che mi piacevano molto. Oltre alla Beghi che lavorava con me, ricordo Adriana Benetti, che doveva interpretare in quegli anni proprio due film rimasti nel tempo: Teresa Venerdì e soprattutto lo splendido Quattro passi tra le nuvole.

Il mio film, Gran Premio, venne proiettato alla fine del ‘43, in tempi ormai calamitosi, ma non per questo il "Carlino" si astenne dal giudicarlo: c'era sempre quel giovane Biagi col quale la mia famiglia aveva avuto da ridire e che forse per questo, oltre che per altre sacrosante ragioni, aveva con me il dente avvelenato. "Mariù Pascoli si atteggia quasi come Mae West", scrisse. Chi era costei? si domandò la famiglia Pascoli. Consultando una vecchia enciclopedia, scritta quando ancora gli Stati Uniti e i suoi attori non erano stati messi al bando, si lesse che Mae West era una vamp protagonista di tanti film western dove spesso faceva l'intrattenitrice di saloon. Apriti cielo! Altra telefonata al direttore del 'Resto del Carlino', lamentando lo scarso rispetto dovuto alla mia piccola, ma ragguardevole persona. Povero Biagi! Con lui lavorai in seguito in teatro ma penso che dovesse covare una segreta quanto giustificata antipatia nei miei confronti. Ebbi poi l'occasione di vedere i film di Mae West, e la trovai in verità molto spiritosa e simpatica e non so spiegarmi davvero che cosa volesse intendere Biagi paragonandomi a lei.

Nella foto: copione originale di La fuggitiva (P. Ballerini, 1941), per la parte di Marina, interpretata da Mariù.