Ecco la sesta e ultima puntata del Romanzo di Mariù. Potete leggere le altre qui.
Ritorno a casa
Venne la primavera e con la primavera una chiamata dalla mia produzione, che si era rintanata a Venezia, costituendo la cinematografia della repubblica di Salò, che mi chiedeva di partecipare al film Senza famiglia, dal romanzo di Hector Malot. Citando Manzoni dovrei dire: la sventurata rispose. E veramente per questa risposta mi sono sempre sentita oltremodo sventurata perché, se nel '40 lavorare per il regime era partecipare a un governo che ineluttabilmente era il governo di tutti gli italiani, lavorare nel '44 era rendersi complici di una dittatura che in modo infame collaborava con l'occupante tedesco, contribuendo alle sofferenze della popolazione che doveva subire oltre alla fame e alla guerra e ai bombardamenti anche la stoltezza di spettacoli che fingevano un'assurda normalità. Per tutta la vita ho sentito questa collaborazione come una vergogna anche se la mia età, i miei nove anni, non potevano certo essere responsabili della scelta. E anche se penso che quell'andare a Venezia fosse in fondo un sacrificarmi per la salvezza di tutta la famiglia che, mettendomi in bocca al leone, faceva apparire quella scelta come una scelta di campo e permetteva a mio padre quella libertà che gli avrebbe consentito di 'non stare alla finestra' e di affiancare chi si opponeva in modo sacrosanto ai repubblichini, il dolore profondo che mi ha sempre attanagliato non ha potuto essere mitigato.
A Roma, nonostante Cinecittà fosse un delle più importanti realizzazioni del regime, non si vedevano praticamente mai esponenti governativi che venissero a dettar legge. Venezia era invece sotto una morsa di gerarchi fascisti e nazisti che visitavano in continuazione gli stabilimenti della Giudecca, chiamata anche Cinevillaggio, dove si tentava la lavorazione di due o tre film contemporaneamente, sperando di dare l'illusione di una ripresa normale delle attività artistiche. Tutti vivevamo una vita fittizia nella splendida e indifferente Venezia e nell'augusto spazio di piazza san Marco il selciato era battuto dagli stivali tedeschi, dagli scarponi fascisti, dalle truppe della X mas del principe Borghese, da spie di vario genere e provenienza tutte tese durante quella estate caldissima del '44 a godersi quella finta e apparente parentesi di calma come se la guerra fosse un'invenzione cinematografica.
Alla Giudecca dunque, si girava Senza Famiglia. Remigio era quel bambino delizioso che molti ricorderanno nella patetica divisa di collegiale ne I bambini ci guardano di De Sica, Luciano De Ambrosis che doveva poi fare una splendida carriera di doppiatore. Io ero la zingarella Lisa ed ero stata chiamata dopo che la parte era quasi stata assegnata a una bimba veneziana, Maria Pia Colonnello che vidi una decina d'anni dopo come attrice del teatro dialettale. La sostituzione aveva suscitato la sua comprensibile invidia e collera, anche perché era stata in seguito scritturata come comparsa e per queste ragioni si era introdotta nel mio camerino e con un paio di forbici aveva tagliuzzato il mio costume di scena, non sapendo che così facendo avrebbe alleggerito il lavoro della sarta in quanto Lisa era in realtà una mendicante e quindi il suoi abiti dovevano per forza essere quelli di una pezzente. La zingarella in una scena doveva ballare e così mi valsero gli insegnamenti passati della signora Volta. La moglie del regista Ferroni era una danzatrice classica di professione e rinfrescò con qualche lezione le mie scarse nozioni di ballo. Questa volta Amour e printemps era stato sostituito con il valzer Speranze perdute, che dovevo sottolineare con ripetuti percuotimenti di un cembalo con nastri rossi che tenevo in mano e che si adattava al costumino da zingara e alla fascia con campanellini che avevo intorno alla testa. La zingara Lisa, nella seconda parte del film che si chiamava Ritorno al nido, faceva fortuna ed era adottata o ritrovava i genitori, non ricordo bene, so solo che poteva indossare dei vestitini un po' più graziosi e avere i lunghi capelli tenuti insieme da un nastrino di velluto. Lunghi capelli che quell'estate, nella sporcizia e nel degrado di quei finti stabilimenti cinematografici, avevano conosciuto il disonore della coabitazione con i pidocchi.
Venezia assisteva indifferente a tutta quella confusione, i suoi meravigliosi monumenti erano coperti da impalcature che dovevano difenderla dagli eventuali attacchi nemici. La gente cercava di vivere e qualche volta andava persino a fare il bagno al Lido. In fretta e furia vennero terminati i film in lavorazione: io, il mio, non l'ho mai visto.
Il freddo quell'anno fu tremendo. A Venezia nevicava in modo continuato e insolito per la città, i ponti erano coperti da uno spesso strato di ghiaccio che metteva a repentaglio la stabilità di chi vi si avventurava sopra. Noi eravamo partite con un guardaroba primaverile del quale faceva parte un solo soprabito per la due mie sorelle grandi che per giunta era fatto di lana di baraccano bianco, in memoria del soggiorno africano. Soldi per comprare cose pesanti non ce n'erano e le mie sorelle dovevano a turno uscire di casa con quel soprabito addosso che, data la copiosa presenza della neve, le faceva sembrare poveri orsi bianchi nella desolazione del pack.
Il proseguire dell'inverno e la guerra sempre più disastrosa facevano sì che mangiare diventasse sempre più difficile, i soldi erano scarsissimi. Alla fine mia madre, sia pur a malincuore, fu costretta a chiedere un sussidio al Ministero della cultura popolare dal quale dipendevano gli attori. Fui chiamata alla sede del Ministero. La domanda era stata accettata e mi erano state concesse diecimila lire. Entrai in quell'ufficio intimidita e vergognosa, con la netta impressione di chiedere l'elemosina. Il signore seduto dietro alla scrivania era un giovane capo-gabinetto molto cortese per la verità, nonostante la freddezza dei suoi occhi chiari. Giorgio Almirante mi porse la busta con la somma che ci avrebbe aiutato a tirare avanti ancora un po'.
L'angoscia di quegli ultimi mesi di guerra diventava sempre più pressante, sapevamo che sarebbe stato impossibile tornare a casa perché la ferrovia era ormai inservibile, dato che il lungo ponte sul Po era andato completamente distrutto dai bombardamenti. Fu così che alla vigilia del giorno di San Giuseppe ci trovammo all'improvviso davanti nostro padre, giunto con un camioncino da Bologna, camioncino disseppellito pezzo per pezzo e ricostruito apposta per venirci a prendere con un autista di una casa farmaceutica i cui padroni, di religione ebraica, erano stati aiutati da mio padre a nascondersi e per sdebitarsi gli avevano indicato il luogo in cui era nascosto il mezzo. Cominciò così un viaggio terribile. Solo la mamma era al coperto, nella cabina di guida. Noi tre sorelle con il papà eravamo allo scoperto in uno spazio talmente ristretto che mio padre teneva per la mano Iane che era seduta mezza fuori e mezza dentro al camioncino, esortandola a non addormentarsi per non perdere l'equilibrio.
A Pontelagoscuro c'era un casotto delle truppe naziste che controllavano i documenti. I passaggi delle chiatte erano seguiti da un aereo alleato che regolarmente li mitragliava. Noi non sapevamo se avere più paura dell'aereo o dei soldati tedeschi. Fu il turno di papà e dei suoi documenti tutti falsificati, il soldato addetto al controllo li aveva appena presi in mano quando il comignolo del casotto prese fuoco e tutti i soldati si precipitarono fuori per spegnere quel principio d'incendio. Io e Franca ci buttammo giù dagli argini per sfuggire ai proiettili, correndo un terribile pericolo perché nella notte spiccava particolarmente il candore del famoso soprabito di baraccano di mia sorella. Giacevamo abbracciate piangendo nel fango, quasi sicure che non saremmo mai più tornate a casa, cosa che invece miracolosamente si verificò, nel cuor della notte, nel cuore del coprifuoco, con i documenti falsi salvati dalle mani nemiche. Suonammo alla porta di Via Ghirardacci più morte che vive. Più morta che viva ci aprì Annamaria, ormai sicura che non ci avrebbe più rivisti. Il giorno dopo ci fece le tagliatelle, piatto nel quale era diventata maestra e fu il primo vero momento di beatitudine della mia vita.
Il diciannove aprile i bombardamenti si erano fatti così incessanti che mio padre decise di portarci tutte in centro, dove almeno non si era così esposte. Decidemmo quindi di fuggire un’ora prima del coprifuoco, verso le sette di sera, a piedi e correndo per i viali verso Porta Mazzini, con un cuscino sulla testa (modesto riparo ai proiettili) e qualche misera sporta per gli effetti personali. La meta era quella fabbrica di medicinali i cui proprietari ci avevano fornito il camioncino per il rientro da Venezia, e si trovava in via dell’Abbadia, vicino all’ospedale militare. Ci arrivammo fortunosamente e prendemmo posto in uno sterminato magazzino, su dei materassi di fortuna, con la compagnia rumorosa di famiglie di topi che nella notte frugavano tra la carta e le scatole di medicine.
Passammo il giorno dopo asserragliate in mezzo a quello squallore, sole e spaventate. Papà era andato a raggiungere i suoi compagni. La mattina del ventuno fummo svegliate da violente scariche di mitra che provenivano dal vicino ospedale militare: i tedeschi, prima di lasciare definitivamente la città, avevano fucilato un ultimo gruppo di partigiani. Poi, più tardi il vocìo della gente gli urli di gioia: "sono arrivati i polacchi, è finita".
Non è possibile, tutta la città grida, dopo tanto funereo silenzio, tutta la città è inondata di sole, di luce, tutti hanno dimenticato all’improvviso cinque anni d’angoscia, non si sa ancora cosa ci sarà domani, non lo so nemmeno io che sono ancora piccola, ma che purtroppo ho già vissuto esperienze tanto più grandi di me. Però è meraviglioso.
Nella foto: Ritratto di Mariù Pascoli, interprete nel film Gran premio (G. Musso, 1943), in 'Primi piani', dicembre 1942.