Nei luoghi proletari di Mike Leigh e fra i lavori anonimi di Ken Loach, l’italiano Uberto Pasolini scrive, produce e dirige Nowhere Special, suo secondo film da regista dopo Still Life, con lo sguardo e il cuore rivolti a Un affare di famiglia di Hirokazu Kore-eda. Forse davvero non c’è niente di speciale, come sostiene Pasolini, in un padre che deve insegnare al figlio di quattro anni il significato della morte - la sua, imminente a causa di un tumore che gli lascia pochi mesi di vita a neanche trentacinque anni compiuti - e ridefinire per lui in continuità i concetti di casa e famiglia, ma il sospetto è che il titolo del film celi una dichiarazione di intenti da parte dell’autore più che un’opinione sulla non-eccezionalità della vicenda, che eccezionale lo è.

Lo stile semplice e il tocco delicato di Pasolini non solo permeano la storia scena dopo scena, ma prendono per mano lo spettatore esattamente come fa John con Michael nelle passeggiate volte a prepararlo all’addio e a spiegargli l’inspiegabile, come se davvero né l’uno né l’altro fossero qualcosa di speciale.

Ben presto, trascorsa la fase che ci assimila a Michael, ignaro come noi delle ragioni per cui il padre gli fa conoscere nuove famiglie, gli parla di adozione, nuovi genitori e case diverse da quella in cui vivono insieme, vestiamo i panni di John per toccare con mano l’affetto che lo lega al bambino e la disperazione del doverlo lasciare al culmine di una vita costellata di sfortune.

Poco sensato descrivere a parole il calore domestico e l’amore genitoriale e filiale che Pasolini è così bravo a far uscire dallo schermo: Nowhere Special è il genere di film ai cui silenzi, sguardi, momenti di intimità e introspezione ci si abbandona facilmente, per ritrovarsi senza difese nelle pieghe dei pensieri e dei gesti di John, interpretato da un dolente James Norton.

Se da un lato l’incipit del film mostra sia lui sia Michael guardare il mondo da una finestra - le tante pulite da John, che fa il lavavetri in abitazioni, uffici e negozi, e quella di casa a cui Michael lo aspetta a turno di lavoro concluso- dall’altro lo straziante pre-finale, una sommessa scena madre parente stretta di quella di Hereafter in cui il sensitivo Matt Damon consolava un bambino a lutto, è l’apice dello scavalcamento di quei vetri, essenziale nel completare il percorso sensibile e universale su cui cresce il rapporto fra John e Michael.

Pochi e scarni commenti musicali, inevitabilmente malinconici, molti piccoli momenti di vicinanza fisica e sentimentale fra padre e figlio. Caldi abbracci in solitari pomeriggi autunnali, sorrisi complici, un asciugamano Ikea avvolto alla vita di Michael che ha aiutato John a preparare una torta di compleanno, preoccupazioni reciproche e una scatola dei ricordi con cui accomiatarsi dal proprio bambino sapendo di dirgli che si avrà sempre ben chiaro quale è il suo colore preferito. Niente di speciale, forse, ma molto di toccante.