“Sto pensando di finirla qui” dice/pensa una giovane ragazza, non si sa se parlando della sua vita o della sua relazione sentimentale, giusto prima di partire per conoscere i genitori di lui. Un lungo viaggio nel nulla ovattato dalla neve e infarcito di dotte e molto esistenziali disquisizioni, per poi ritrovarsi a una cena in cui il clima si fa prima imbarazzante, poi frustrante, infine surreale.

Charlie Kaufman è elusivo ed ellittico come pochi, nei suoi lavori come nella capacità controcorrente di concedersi raramente, solo alle sue condizioni e, come sceneggiatore, solo a chi vuole lui: Spike Jonze, Michel Gondry e quasi nulla più. Qui torna anche come regista adattando – evenienza assai rara nella sua filmografia –  uno stimato romanzo di Ian Reid, nel quale trova terreno fertile per le sue riflessioni sulla definizione del sé, sul rischio incipiente di una sua frantumazione, e sul senso dell'esistenza nella prospettiva della mortalità.

Sto pensando di finirla qui è strutturato come un tipico sogno d'ansia, in cui si vuole arrivare da qualche parte (tipicamente a casa propria), ma accade sempre qualcosa, anche di incredibile e bizzarro, che non lo permette. Il tono emotivo è quello di certi fugaci momenti di frustrazione e imbarazzo, per qualche silenzio non voluto, una parola sbagliata, o un occasionale eccesso di verità, allungati alla durata apparentemente insostenibile di 134 minuti.

La tensione prolungata che ne deriva è da vero e proprio thriller psicologico, un “thriller della mente”. Tipico film da ricostruire a posteriori, della cui fantasmagoria non è comunque possibile capire tutto, Sto pensando di finirla qui esiste per provocare nello spettatore uno spiazzamento e un desiderio di ricomposizione tanto indefinibili quanto ancestrali, che risuonano in maniera angosciosa e inaspettata.

Basato su continue ripetizioni e variazioni, un classico del cinema surrealista da Meshes of the afternoon di Maya Deren, dentro Sto pensando di finirla qui ci sono infiniti rimandi e citazioni, a volte sottesi (i dialoghi intimistici alla Malick, l'attesa del senso e le ricorsività di Aspettando Godot di Beckett) a volte dichiarati: i due giovani protagonisti parlano continuamente per aforismi e citazioni di film, libri, poesie, canzoni, jingle pubblicitari, fra Wordsworth, Foster Wallace e Cassavetes, in un tentativo strenuo di trovare ispirazione e ordine all'esistenza.

Le definizioni di sé si slabbrano, e così se la società borghese trova palliativi incasellando gli individui in categorie sicure e discrete quali i dati demografici, qui il re è nudo: i protagonisti cambiano subitaneamente i nomi, le professioni, le età, con uno scarto così disarmante per lo spettatore da apparire orrorifico. Ugualmente eclettica e spiazzante è la forma stilistica del film, anche se, per quanto evidentemente Kaufman concepisca le sue creazioni come poemi in forma libera, l'inserto musical e le animazioni (passione non sopita dopo Anomalisa) finiscono un po' per nuocere all'atmosfera di ricercata inquietudine così pazientemente costruita.

Ma si tratta di peccati veniali, piccole debolezze di una grande mente che osa, subito perdonati quando il gran finale ci fa provare brividi che non sentivamo dai tempi in cui frequentavamo il Club Silencio.