C'era un personaggio nel primo Jurassic World (2015), impiegato presso il reparto operativo del parco faunistico a tema preistorico e che si recava al lavoro indossando la t-shirt con il logo dell’originale Jurassic Park ed esibiva davanti al suo computer una serie di modellini di dinosauri disposti accuratamente in fila. Il personaggio si chiamava Lowery Cruthers, era interpretato da Jake Johnson e, per quanto di scarsa rilevanza nell'economia della trama, la sua presenza acquisiva una funzione rivelatrice, palesando a quale tipo di pubblico si rivolgesse il sequel/reboot (requel direbbero i personaggi di Scream 5) tramite cui la Universal mirava a riesumare il franchise generato dal classico del 1993.

L'operazione affidata all'allora semisconosciuto Colin Trevorrow recuperava il brand spielberghiano nella speranza di riagganciare l'interesse delle schiere di fedeli spettatori meritatamente conquistati grazie al capolavoro iniziale ed al dignitosissimo seguito, ma poi rimasti parzialmente delusi dal terzo atto firmato Joe Johnston. Operazione dall'esito decisamente positivo, ragionando anche a posteriori con un occhio ai dati sull'accoglienza riservata al film. Ma al di là degli strabilianti risultati al box office, Jurassic World riusciva nel suo intento di adattare la saga al nuovo contesto cinematografico, ricalcando la struttura narrativa dell'originale e tematizzando la questione dell'invecchiamento del brand ( la Claire Dearing di Bryce Dallas Howard cercava appunto di rilanciare il business dei dinosauri, ormai in declino) e spingendo sulla questione della spettacolarizzazione ("più denti") in ottemperanza alla richieste del pubblico dei nuovi mercati avidi di blockbuster americani, Cina su tutti.

L'esito, malgrado qualche perplessità, era stato più che convincente ma lasciava in effetti un dubbio circa le capacità di questo nuovo corso di reggere un intero progetto seriale. Già il secondo capitolo datato 2018 mostrava proprio come l'aspetto della progettazione fosse alquanto carente. Un film certamente affascinante grazie all'apporto autoriale di Juan Antonio Bayona, ma gravemente isolato rispetto al discorso sviluppato dal precedente. La prova definitiva della scarsità di risorse narrative circa il redivivo franchise giunge però con questo terzo film. O ancor più dell'incapacità di trovare nuove idee, Jurassic World: Il dominio dimostra di non volersene fregiare, credendo che l'effetto nostalgico di un prodotto acclamato da almeno due generazioni di spettatori basti a sancirne l'interesse.

E se da un lato - quello economico - ciò può essere vero stando ai risultati che il film sta ottenendo nei mercati overseas e alle rosee proiezioni relative all'imminente debutto domestico, sotto un profilo strettamente qualitativo questa si sta rivelando una scelta ben poco lungimirante. Il ritorno alla regia di Trevorrow segna una restaurazione del ben rodato stile epicizzante, con la storia che evade dalle pareti della villa “stregata” de Il regno distrutto per ritrovare una dimensione globale. E proprio l'espansione dei dinosauri nel nostro mondo e la loro interazione con la specie umana sarebbe stato l'aspetto più intrigante da esplorare in questo episodio. Motivo per cui la principale perplessità a tal riguardo risiede nello scarso impegno dedicato alla ricerca di situazioni e conflitti inediti e di più vasta portata, sulla scia di quel “trionfo” della vita profetizzato dal mai dimenticato John Hammond di Richard Attenborough.

I riferimenti e le implicazioni si fanno più ampi, ma di fatto l'azione resta circoscritta e ricalca linee già tracciate e ormai ben note. Un pigro sforzo creativo che sulla carta doveva essere nobilitato dal ritorno, dopo la volta dell'Ian Malcom di Jeff Gldblum, degli amati personaggi di Alan Grant (Sam Neil) ed Ellie Sattler (Laura Dern). Il fine era dunque lo stesso del 2015, ovvero rivolgersi ai Lowery Cruthes di oggi, chiamandoli a raccolta e ripagando il loro affetto con la gioia di rivedere sullo schermo dei volti verso i quali nutrono una profonda devozione. A differenza del precedente lavoro di Trevorrow, però, che rifletteva su questo stesso processo nostalgico, in questo caso lo sguardo al passato appare maggiormente fugace e superficiale.

I primi a rendersene conto sono proprio i membri del cast storico, tra i quali la sola Laura Dern, pur apparendo più divertita che impegnata, mostra una percepibile devozione al ruolo. In tal senso i pretestuosi escamotages narrativi tramite cui questi personaggi vengono richiamati all'interno del racconto, non gioca un ruolo favorevole. L'operazione nostalgia si mostra dunque alquanto impacciata e non più del tutto efficace. Il nuovo lavoro riguardante la saga giurassica fatica a trovare un'equilibrata organicità tra passato e presente, che vengono intrecciati ma non riescono mai a saldarsi in modo da evocare l'agognata estasi spettatoriale. 

Ciò che si intravede oltre le squame delle pur sempre ammalianti creature portate su schermo, è la volontà di ottenere il massimo risultato con uno sforzo minimo, ignorando però che tale processo, se reiterano, rischia di generare un opposto effetto di disaffezione e rifiuto. Dopo l’evoluzione del cinema blockbuster avvenuta in quel magico decennio che parte dalla trilogia de Il signore degli anelli di Peter Jackson fino agli Avengers di Joss Whedon, Jurassic World si proponeva di riscoprire il fascino dei dinosauri al cinema, in un momento in cui il pubblico era si era ormai assuefatto a qualsiasi meraviglia visiva ricreata in una sala cinematografica.

Il discorso che si poneva come una premessa allettante dimostra però, dopo tre film, di non avere la forza per ricostruire un immaginario e adeguarlo in modo efficace al presente, tanto da far storcere il naso al Lowery Cruthers che risiede in ognuno di noi e, magari dopo averlo fatto sogghignare in un paio di occasioni, costringerlo ad assistere ai titoli di coda con sguardo mesto e malinconico.