“Ti smarrirò sulla montagna / A primavera finita / È ancora attivo il tuo profilo / Un vuoto aperto sul vuoto” (Gazebo Penguins, Bismantova, 2017)

Sono le chiusure in continuo dialogo con le aperture, i detti e i non detti, i silenzi lievi della natura che si incontrano con gli appesantimenti della colonna sonora, i vuoti che rimandano a più di un’attesa tensiva a determinare la misura essenziale e criptica de Il vento soffia dove vuole: secondo lungometraggio di Marco Righi, a più di dieci anni dal suo primo film, girato e ambientato sui monti emiliani con più di una vocazione di resistenza.

Ambientato in quella provincia italiana universale, ma capace di costruirsi immaginari propri e mitologie territoriali – qui siamo nel reggiano, attorno alla Pietra di Bismantova – il film è l’incrocio di solitudini e misteri. Antimo ha abbandonato il seminario e si occupa della fattoria di famiglia, nel frattempo la sorella Marta studia. I genitori non ci sono (la madre è morta, il padre non si vede quasi mai) e la religione aleggia trasversalmente (è un ricordo doloroso? un trauma? un sentiero di salvezza? un destino inevitabile?). Attorno a loro si muove tutto il resto: un prete chiuso e sospettoso, un contadino aperto e senza fede, gli animali, la montagna…

Marco Righi mette in dialogo la storia di un lutto e di una fede, mentre il resto lo lascia a una spaesante attesa (che sono proprio il lutto e la fede a pretendere). Poi prende l’atteggiamento sinfonico e naturalistico di certo cinema italiano che va da Piavoli a Frammartino, passa dalla contemplatività emergente del cinema internazionale degli ultimi vent’anni, per arrivare con convinzione al trascendente nel cinema, quello di Schrader (sia regista che teorico, che regista-teorico) attorno a cui fonda tutta l’ossatura di un film fatto di distanze oltre che di attese, costruito su un approccio fisico, materiale, immanente, ma che si apre a una immaterialità e una spiritualità possibile.

Questo, perché Il vento soffia dove vuole è un film che si fa con le ipotesi e, in quanto tale, è respingente e lo è proprio nel suo essere aperto alle possibilità, nel suo essere distante dai personaggi e dalle loro motivazioni, nel suo essere contraddittorio. Non si fonda su un’idea netta, preferisce disseminare indizi piuttosto che seguire la rigidità di un piano preciso, preferisce muoversi per supposizioni piuttosto che per obiettivi. La religione, allora, diventa dura ottusità, ma leggera possibilità di redenzione; un battesimo “apocrifo” diventa un lungo piano sequenza, ma non una pacifica redenzione; il paesaggio visto da un monte può essere uno sguardo aperto e terrorizzato allo stesso tempo; un fuoco può essere speranza e disperazione.

I tempi lunghi e rarefatti – gli stessi dell’estate orizzontale dei due protagonisti del precedente I giorni della vendemmia – sono al servizio dell’attesa di un cambiamento, di una svolta, di un ritorno, di una resurrezione (tra le vie del paesino, in quei giorni, si celebra la Pasqua). Attesa di qualcosa costantemente relegata a un fuoricampo che ha dentro di sé tutto – la morte in particolare – ma soprattutto ha il fluttuare magico di un’ipotesi o di una catarsi spirituale che il campo non ci concede mai definitivamente.

Il titolo è un riferimento biblico, ma in fondo è anche la condizione di un film che soffia dove vuole, che non scende a compromessi con ciò che gli sta attorno, nella sua assenza di dialogo con il contesto – non per smisurata superiorità, nemmeno per senso di inferiorità – ma solo per la misura della sua vera indipendenza, quella di un film davvero fuori, contro… dove vuole.