Al suo debutto letterario in società, il giovane Lucien Chardon - che in realtà si firma de Rubempré per nascondere le origini borghesi del padre col cognome nobile della madre - declama una poesia segretamente dedicata alla bella marchesa Luise De Bargeton, una nobildonna di Angoulême soffocata dalla vita di provincia francese e dal vecchio marito. Alle spalle del giovane poeta si intravede un drappo che recita Beauty Forever. Questa promessa di eterna bellezza sarà l'ingenua ma genuina illusione che condurrà Lucien nella Parigi della Restaurazione post napoleonica, alla ricerca della fama e di un editore che lo pubblichi.

E Parigi diventa a tutti gli effetti protagonista insieme a Lucien della sua storia: una città pronta ad accogliere giovani di belle speranze, ad offrire visibilità e successo, l’eleganza della vita mondana, gli ozi e gli svaghi di teatri, prostitute e nuove droghe. Una città dalle spietate regole del gioco, alle quali si può solo adeguarsi o soccombere. Una città che alza la gonna sulle sue oscene nudità e spinge i corpi dei più deboli fra le maglie delle reti a raccolta dei suicidi nella Senna.

Con Illusioni Perdute Xavier Giannoli porta sul grande schermo l’omonimo romanzo di Honoré de Balzac, pubblicato tra il 1837 e il 1843 e poi confluito nel grandioso progetto letterario de La Comédie Humaine. Il film si sviluppa in modo abbastanza fedele al romanzo e con un impianto narrativo classico che segue la formazione del protagonista. Il regista fa ricorso all'ormai poco utilizzata voce narrante fuori campo (riservandoci però una sorpresa sul finale), ci regala sontuose immagini viscontiane e ci trasporta in un vortice di movimento che ricorda Max Ophüls. Ma ci immerge anche in una meticolosa ricostruzione storica e figurativa e ci avvolge in una colonna sonora (con brani di Vivaldi, Bach, Schubert e Strauss) che affianca e sostiene saldamente la sceneggiatura, rimandandoci spesso - nonostante il differente contesto storico - ad alcune scelte estetiche e narrative presenti in Barry Lindon di Kubrick.

Ma a dispetto dell’impianto classico e agli omaggi al grande cinema del Novecento, questo film risuona incredibilmente attuale e contemporaneo. A nulla vale un lungo rosario di oggetti antichi che saturano la scena: la pesantezza dei torchi tipografici, la leggerezza delle penne che si posano su fogli di carta volanti, la vischiosa materialità dell'inchiostro che sporca visi e coscienze. Forse perché il motore che muove tutti questi oggetti ormai perduti è una realtà che conosciamo bene e di cui abbiamo esperienza: l'irruzione del mercato e della legge del profitto nel mondo dell’informazione e dell’editoria, la consapevolezza che tutto può essere comprato unita alla disillusione del non poterne fare a meno.

Quelli che narrava Balzac, e che Giannoli riprende, sono anni di grandi cambiamenti ma anche di grande fermento artistico. Mentre nelle redazioni irrompe la pubblicità, facendo aumentare la tiratura e la diffusione dei giornali, nascono nuovi quotidiani satirici che annoverano fra i redattori scrittori sconosciuti, destinati al grande successo letterario. Ma sono anche gli anni in cui - nel mondo dell'editoria, dell'informazione e delle lettere in generale - fioriscono nuovi meccanismi di potere, cambiano i tempi di produzione e di fruizione e nascono nuove figure di editori, critici e giornalisti. Più o meno come continua ad avvenire - fatti i debiti mutamenti - ai giorni nostri.

“Mio fiero cavaliere senza paura e senza principi - fa dire Giannoli all’editore che consacra Lucien al successo ma anche alla sua perdizione - nel nome della malafede, del pettegolezzo e degli annunci pubblicitari, io ti battezzo giornalista”. Nonostante i quasi due secoli di distanza - e nonostante la competenza e l’etica di tanti professionisti che lavorano in questo mondo - non possiamo non cogliere le assonanze fra quel periodo storico e quello attuale: dalle ingerenze fra editori e politica al potere della pubblicità, dall’ambivalenza delle fake news al ruolo della critica, fino alla consuetudine di strizzare l'occhio al lettore/spettatore (come non pensare ai due conduttori televisivi del recentissimo Don't Look Up di Adam McKay?).

Alla riuscita del film contribuisce poi anche l’ottimo cast. Il giovanissimo Benjamin Voisin - che vince la sfida della continua presenza in scena per quasi due ore - dona al protagonista Lucien le tante sfumature che percorrono l’evoluzione del personaggio: dall’ingenuità all’arrivismo fino alla disperazione. Accanto a lui troviamo attori famosi, come l’icona del cinema francese Gérard Depardieu, che veste i panni dell’editore potentissimo e analfabeta Dauriat, o come Cécile de France, che interpreta la bella e vacua Luise De Bargeton, ma anche giovani interpreti come Vincent Lacoste, il caporedattore senza scrupoli Étienne Lousteau, o Salomé Dewaels, l’attrice di teatro Coralie di cui Lucien si innamora.

Fra gli attori compare anche il noto regista canadese Xavier Dolan, scelto appositamente da Giannoli che voleva un artista per interpretare la figura dello scrittore Raoul Nathan. E Dolan, che attraverso il suo personaggio incarna l’ alter ego di Lucien - colui che riesce a domare le regole del gioco imposte dalla società senza farsene divorare - ripaga la scelta del regista, con un’interpretazione misurata ma insieme accattivante e sensuale.

Nulla è lasciato al caso in questo film, tutto è pensato, scritto e realizzato con un’attenzione rigorosa, volta a rendere sia i minimi dettagli che l’affresco generale di un’epoca, in una commedia umana che in fondo conosciamo e bene. Ma non solo. Giannoli riesce nell’impresa per nulla scontata di rileggere e restituire sul grande schermo quell’urgenza e quella contemporaneità che abita ogni grande classico. Il fatto che il regista francese ci lavori da oltre vent’anni - quasi che l’innamoramento giovanile per Balzac sia diventato l’ossessione artistica di una vita - pare un buon investimento: alla fine Giannoli ci restituisce quella promessa di bellezza con cui apre la sua stessa narrazione.