L’effetto più evidente della morte di Sandra Milo è un riflusso incontrollato di fellinianità su tutti i mass media. Forse perché come diceva il regista, “la donna rispecchia e restituisce le nostre emozioni e i nostri bisogni, con amicizia e comprensione, dà loro forma ce li rivela…si potrebbe dire che la donna è più sincera dell’uomo, che si rivela si esprime e si consegna così come è, non come vorrebbe essere, non ha la nostra finzione, la maschera del lavoro, dell’impegno, della ideologia, che inganna e copre la verità” (Federico Fellini, Dizionario Intimo, Piemme, 2019). Così la morte di ‘Sandrocchia’, per 17 anni amante segreta del regista che si definiva “un gran bugiardo”, ci restituisce della sua esistenza l’essenza di una pura (quanto forse ingenua) verità.

“Ho vissuto come ho voluto, sempre. Sono fortunata perché non ho rimorsi né rimpianti. Ho 90 anni, ma non ho paura di morire; a un certo punto toccherà anche a me. Io credo che rimangano di noi delle cose quando non ci saremo più, che siamo ancora noi, piccolissimi, invisibili, ma che continuiamo a vivere e amare, stare vicine alle persone che amiamo, in un modo diverso. Mi sono accorta che non si muore mai, che così la morte non esiste. Il pensiero della morte non mi fa paura”.

Forse è stato poco considerato l’aspetto volitivo e assertivo del carattere di questa donna da tutti coloro che ne hanno spesso confuso il personaggio (cinematografico prima e televisivo dopo) sognante, stridulo, svampito, con la persona. Nata nel 1933 a Tunisi da padre siciliano e madre toscana, sposa bambina a 15 anni, esordisce al cinema all’età di 22 anni accanto ad Alberto Sordi in Lo scapolo (1955) di Antonio Pietrangeli. L’identificazione dell’attrice con le sue forme prorompenti e vistose, e con la voce ingenua e bambinesca, è immediata. Sandra divenne una maggiorata del grande schermo e intraprese una carriera costellata da numerosi film di genere.

Il primo ruolo importante venne con Il generale della Rovere (1959) di Roberto Rossellini dove interpreta una prostituta, analogamente ad Adua e le compagne (1960) di Pietrangeli. Poi fu la volta di Vanina Vanini (1961) ancora con Rossellini e della stroncatura feroce delle sue doti recitative al Festival di Venezia, con le sarcastiche annotazioni che circolavano nell’ambiente da parte di addetti stampa (Enrico Lucherini) che le avevano affibbiato il soprannome ‘Canina Canini’. Il ritorno al cinema fu grazie all’incontro con Fellini: in (1963) e Giulietta degli spiriti (1965): Sandrocchia è chiamata ad incarnare l’ideale femminino felliniano, contenitore esplosivo di erotismo, femme fatale disinibita e spigliata prepotentemente messa in contrapposizione a figure di donne e mogli caste, inibite, dimesse e completamente rinunciatarie rispetto alla funzione sessuale.

Sandra Milo ha incarnato sul suo corpo e sulla sua persona dagli anni '60 in poi (fino agli anni '90) la dualità degli archetipi femminili italici vestendo i panni della donna ‘puttana’ amante (libera di desiderare ed essere desiderata) in opposizione alla donna madre/moglie (confinata in un mondo di totale assenza di amor proprio e desiderio). Tale dualismo è stato da lei incarnato a tal punto da diventare una cifra esistenziale anche della sua vita privata, contrapponendola sui tabloid (anche oggi post mortem) all’immagine ed alla memoria di Giulietta Masina: lei moglie ufficiale e devota, Sandra amante nascosta e deplorevole, ma incarnazione del sogno (erotico) felliniano (v. Giulietta degli spiriti). Quanto ha contribuito il personaggio di Sandra Milo alla liberalizzazione dei costumi nel nostro Paese? Quanto le sue verità e i suoi sentimenti esposti con candore esagerato in televisione (subito prima della nascita della TV verità) hanno lavorato sulla matrice culturale di un Paese per scardinarne i moralismi perbenisti e i conformismi borghesi?

Le parole con cui Sandra Milo raccontava la sua lunga storia d’amore con Fellini altro non sono che una pubblica autorizzazione all’amore libero e all’adulterio: "Se quest’amore così fantastico e un po' irreale lo trasformo in qualcosa di normale, dove lui può dirmi ‘Che ci hai messo in questo sugo?’ o ‘Spendi troppo’ o ‘Sei ingrassata’, io ci rimango male. Volevo conservare l'amore straordinario che è ancora dentro di me e mi dà forza e felicità, dovevo lasciarlo così com'era, senza banalizzarlo con una storia di vita in comune. Ho preferito chiuderlo nel momento più bello e l’ho salvato per l’eternità”. Una presa di posizione inconcepibile per una Paese soffocato da una cultura bigotta e puritana.

Sandra Milo ha avuto il coraggio di essere una donna diversa (o l’altra donna) in tempi in cui l’unico ruolo femminile ammissibile era quello di moglie e madre, di passare per sciocca, per poter dire ciò che voleva, di vendere (consapevolmente) l’immagine provocante del suo corpo, per incitare le donne ad una maggiore libertà nell’espressione libera e soggettiva della propria sessualità.

Come diva e modello di una nuova possibilità dell’essere femmina in Italia è stata spesso bersaglio di satire e parodie, scherzi televisivi (resta indimenticabile quello sul figlio Ciro, ripreso in loop da Blob il suo urlo disperato in diretta “No Ciro, come, Ciro dove?”), caricature (una per tutte quella di Gianfranco D’Angelo a Drive in ai tempi della trasmissione Piccoli fans, con parrucca cotonata biondo platino e il tormentone “Che cariiiinooo!”). Ma come diceva il letterato francese Jean de Santeuil “castigat ridendo mores”: l’obiettivo della satira è spesso la correzione dei costumi, ossia nasce da un sentimento psicologico che infiamma l’uomo di fronte a un atteggiamento ritenuto moralmente sbagliato, e all’istinto che porta a commentare e a deridere i vizi e le debolezze di altri, che non si vorrebbero vedere.

Se consideriamo la satira e la parodia come l’esame di coscienza di un’intera società, possiamo ritenere Sandra Milo come l’oggetto, anzi la Soggetta (diremmo con la regista femminista Céline Sciamma) del nostro cinema che, ante-litteram, tale esame di coscienza ha inevitabilmente provocato. Del resto Sandra Milo è stata per noi soprattutto una donna coraggiosa, una donna che, come scrisse in una delle sue poesie (sconosciute ai più e pubblicate da Morellini nel volume Il corpo e l'anima. Le mie poesie), nel cuore aveva una balena: “Se il vento urla/e il mare infuria/chiudo le finestre/e gli occhi alla paura. / Nel buio indosso/un abito di brillanti/e canto/canto forte, /un canto d’amore/un canto di morte/perché nel cuore/ho una balena”.