Gli enormi occhi azzurri, i capelli rossi mai troppo lunghi, il viso spigoloso, il corpo magro e scattante: quintessenza di certi tratti squisitamente britannici, e pure al contempo assolutamente anticonvenzionale, unica e notevole, Maggie Smith è stata la più grande attrice inglese del secondo Novecento.
Non ce ne vogliano le altre splendide Dame (non solo in senso figurato, ma perché insignite dell’ordine cavalleresco da Sua Maestà), tutte più o meno coetanee, Judi Dench, Eileen Atkins e Joan Plowright, che con lei hanno diviso, oltre al titolo baronale e alle luci della ribalta, anche un imperdibile documentario, Nothing Like a Dame, diretto da Roger Michell.
Perché Maggie Smith è riuscita ad attraversare il cinema (e la televisione, e il teatro) con una leggerezza ironica, con un senso dell’umorismo vivace e brillante, che traspariva sempre, anche nelle interpretazioni drammatiche, forse già nella Desdemona interpretata accanto all’Otello di Laurence Olivier, film che l’aveva resa famosa, facendole guadagnare la prima nomination all’Oscar e lanciandone la carriera hollywoodiana.
Si potrebbe dire che Maggie Smith è stata l’ultima delle attrici classiche e la prima delle grandi attrici moderne; un’interprete di solida formazione e di straordinaria finezza che ha saputo creare e mantenere la sua fama senza abdicare alla qualità dei ruoli, senza cedere mai alla maniera.
Proviamo a tracciare qualche percorso, tra i molti possibili, nella sua lunga filmografia. Partiamo dalla collaborazione con Alan Bennett: per il caustico drammaturgo inglese è stata una delle più famose Talking Heads nell’irriverente serie di monologhi scritti per la BBC, la moglie arrivista e borghesuccia del succube Michael Palin in Pranzo reale e una senzatetto che invade il giardino e la vita del protagonista di The Lady in the Van.
Anche quando non occupava il centro della scena, Maggie Smith lasciava il segno, tanto da essere indimenticabile tra i molti mostri sacri che popolavano i film all strar, dai gialli di Agatha Christie (è nei due più bei Poirot con Peter Ustinov, Assassinio sul Nilo, in cui duetta in cattiveria con una dittatoriale Bette Davis, e in Delitto sotto il sole) all’irresistibile Invito a cena con delitto, pastiche firmato Neil Simon dove in coppia con David Niven fa il verso ai William Powell e Myrna Loy dell’Uomo ombra. È sempre Neil Simon, il (più?) grande autore di commedie americano, a regalarle il ruolo che le farà vincere il secondo Oscar, quello della capricciosa diva che… non vince l’Oscar nel più malinconico degli episodi di California Suite, accanto a Michael Caine.
La prima statuetta l’aveva vinta, da protagonista, per La strana voglia di Jean, titolo italiano ammiccante di The Prime of Miss Jean Brodie di Ronald Neame, tratto da un bellissimo romanzo breve di Muriel Spark. È proprio Miss Brodie, insegnate carismatica di una scuola femminile con una fascinazione per i regimi totalitari, il massimo esempio di una serie di personaggi eccentrici che hanno costellato la sua carriera: dalla trascinante Augusta di In viaggio con la zia, da Graham Green, diretta da George Cukor, all’ambigua moglie di Alan Bates coinvolta nel ménage à trois con Isabelle Adjani in Quartet di James Ivory.
Il più inglese dei registi americani la vorrà anche come timorosa chaperon di Helena Bonham Carter in viaggio a Firenze in Camera con vista, facendole vincere uno dei suoi tre Golden Globes. Sarà di nuovo arcigna britannica in Italia in Un tè con mussolini, forse il più sincero dei film di Zeffirelli, dove, passata l’infatuazione iniziale, definisce Mussolini “a bastard” (molto più di quello che riesce a fare la nostra attuale classe politica).
L’odiosa contessa in rovina del capolavoro altmaniano Gosford Park la metterà in contatto con lo sceneggiatore Julian Fellowes, che le porterà la nuova fama degli anni 2010 grazie alla serie Downton Abbey. La sua Lady Violet Crawley è un monumento all’Inghilterra eduardiana e il culmine di un personaggio costruito in sessant’anni di carriera: inscalfibile e corrosiva, conservatrice e all’occorrenza anticonformista, lapidaria sempre e amorevole solo in casi eccezionali. Una lady di ferro adorata dal pubblico, tanto da spopolare anche tra gif e meme.
Cosa che non le dispiaceva affatto. Perché Maggie Smith ha saputo sempre muoversi in maniera sorprendente tra le tavole del palcoscenico (non solo Shakespeare, ma anche Ibsen e Cechov, e autori contemporanei come Shaffer e Albee, fino al Christopher Hampton dell’ultimo A German Life, nel 2019), tra un cinema d’autore e uno autenticamente popolare (basti pensare alla severa madre superiora della scatenata Whoopi Goldberg di Sister Act, o alla nume tutelare di Diane Keaton, Goldie Hawn e Bette Midler, socie del vendicativo Club delle prime mogli), riuscendo a passare con disinvoltura dal ruolo della contessa a quello della barbona, facendo sembrare semplice il riuscire a parlare a pubblici di età, interessi, nazionalità diverse.
Per questo che oggi una generazione di potteriani, ragazzini nei primi anni 2000 e amanti del maghetto inventato da J.K. Rowling, piange la scomparsa della professoressa McGranitt, ruolo che interpretò nell'intera saga cinematografica con la sua consueta capacità di contrappore rigida irreprensibilità e sottile, carismatica ironia. Non l’aveva abbandonato neanche durante le cure per il cancro che l’aveva colpita, e da cui era guarita, perché sapeva che in gioco c’era l’affetto del pubblico.
Fino alla fine Maggie Smith è stata come la sua Wendy ormai nonna di Hook – Capitan Uncino: una anziana bambina, nello spirito indomita tanto quanto un pirata. La sua memoria, come Peter Pan, non invecchierà mai.