Il 5 luglio con la scomparsa di Raffaella Carrà se n’è andato un altro pezzo di storia della televisione e del costume nazionale, forse l’unica vera diva del nostro piccolo schermo, capace di travalicare i confini nazionali imponendosi anche all’estero (soprattutto in Spagna e America Latina) con la sua forte personalità composta, ma impertinente, rivoluzionaria ma capace di una rivoluzione praticata da dentro gli schemi più rigidi dei nostri costumi nazionali, senza, apparentemente, colpo ferire. Nel tentativo di mettere a fuoco il ruolo di Raffaella come diva ci si imbatte in una carriera artistica di tale portata e varietà, da comprendere immediatamente di lei un aspetto su tutti.

La Carrà ha precorso i tempi, in primis, nell’essenza originale del suo divismo, un “divismo molteplice” (definizione coniata da  Roy Menarini nel volume Star al femminile, Edizioni Transeuropa), nel senso della sua presenza trasversale ante litteram prima nell’arte cinematografica (con le apparizioni in film di Bonnard, Vancini, Monicelli, Robson), poi nella ribalta televisiva dagli anni settanta (come soubrette e come presentatrice) e infine anche nel mondo della musica, con circa sessanta milioni di copie vendute nel mondo. Ecco perché oggi non possiamo far a meno di constatare che l’essenza più forte del fenomeno Carrà risiedesse nel suo essere assolutamente, definitivamente, grandiosamente e inequivocabilmente popolare.

Popolare di matrice, di nascita e, qui si nasconde la sua grande forza, popolare per scelta orgogliosa. Di Lei tutti sapevano che era di origini bolognesi (un’infanzia tra Bologna e Bellaria), perché non solo non ne fece mai mistero, ma rivendicava orgogliosamente questa sua matrice provinciale, che illuminava di un accento folkloristico e di un valore artigianale (nel miglior senso della parola) ogni sua esibizione. Se nel mare magnum di personaggi e personaggini che transitano per il grande e per il piccolo schermo la Carrà è rimasta per decenni come faro di una notorietà inattaccabile, il motivo è che stata capace di mantenere intatta e potentissima la sua aura divistica femminile. 

Raffaella è entrata nelle case degli italiani nel formato della diva televisiva, ha acquistato la loro fiducia grazie alla presenza quotidiana sui piccoli schermi, ha pranzato con milioni di italiani, bimbi, genitori, nonni tate e baby sitter, assicurandosi che tutti potessero ma soprattutto volessero indovinare il numero di fagioli contenuti in un barattolo, insieme all'indimenticato Boncompagni, ha avviato la stagione dei mini quiz televisivi all'ora di pranzo, diventando “nostra signora dei fagioli” e coniando il termine "aiutino", si è messa in diretta telefonica con il suo pubblico. Ha accompagnato le nostre vite verso l’emancipazione femminile e la rivoluzione dei costumi sessuali dando una scossa forte al perbenismo moralista della governance cattolica e democristiana di mamma Rai.

Nel 1970 fu Alberta Radelli ne Il caso Venere privata del francese Yves Boisset, e coi capelli neri (in una delle rare occasioni pre-caschetto biondo) posò nuda su un set fotografico di ambientazione sadomaso, fra catene e bikini leopardato. Nel 1971 presentando Canzonissima insieme a Corrado, fece scalpore per il suo abbigliamento "scandaloso": fu la prima a mostrare l’ombelico in TV, per giorni le cronache non parlarono che di quell' ombelico e le polemiche furono infinite. Il ballo del “Tuca Tuca” scosse i benpensanti di tutto il Paese, per la prima volta movenze sensuali e ironicamente maliziose (con la firma di Don Lurio) entravano nelle case degli italiani e lo facevano grazie al lascia passare dell’Albertone nazionale: solo dopo l'esibizione con Sordi il ballo superò le censure che lo avevano stigmatizzato come coreografia eccessivamente audace e provocante, diventando un autentico fenomeno popolare.

L’espressione di infantile gioiosità, le mani in alto (come una resa dell’attore di fronte alla sensualità prorompente del casco d’oro), i saltelli indietro e il leggiadro abbraccio finale di Sordi che cinge alla vita la Carrà (quella vita così stretta e “ombelicata” bramata da milioni di telespettatori), furono capaci di sdoganare l’ombra dell’erotismo via etere. Raffaella è stata capace di smentire l’equazione per cui la diva televisiva è priva di mistero, a causa della sua matrice quotidiana, e della dimensione “piccola” dello schermo sul quale si esibisce e lo ha fatto vivendo con immenso riserbo la propria vita privata. 

Non molto della sua sfera privata è stato dato in pasto alle stampe, e di lei sappiamo solo degli amori più duraturi con Boncompagni e Japino, e del flirt con Sinatra sul set del film Il colonnello Von Ryan, non è diventata madre Raffaella, e forse anche questo particolare della sua esistenza l'ha consegnata alle cronache dei rotocalchi come donna forte, donna che riesce a realizzarsi al di là dello status quasi “obbligatorio” della maternità, una donna che rivendica fieramente e instancabilmente la propria libertà. Come fece nel 1986, ospite del celeberrimo Show statunitense di David Letterman. Raffaella era all’apice della sua carriera televisiva reduce dai successi di Pronto, Raffaella? e Buonasera Raffaella (versione serale del programma), si presentò negli studi televisivi di Letterman vestita da uomo (con la rivisitazione di un frac) e rispondendo a tono, con garbo e fermezza sorridente, alle provocazioni (oggi diremmo sessiste) del giornalista:

"Hai fatto un sacco di soldi in Italia?"

"Yes I do...sai in altri tempi erano solo gli uomini a fare un sacco di soldi in TV, ora abbiamo iniziato anche noi a fare lo stesso"

"Quindi hai fatto un sacco di soldi?"

"Sono una donna e quando dico sì è sì”

“Mi hanno detto che giochi con il pubblico in trasmissione?"

"Si abbiamo introdotto qualche gioco al telefono, il telefono è una via per permettere alle persone di entrare nel programma e diventare leader, perché così possono dirmi di cosa vogliono parlare e tirare fuori anche i loro problemi sociali”. 

Raffaella era una pop star. E poiché era in anticipo rispetto ai suoi tempi, forse solo adesso riusciamo a leggerne così chiaramente i segni. Era pop per quella accentuazione della componente decorativa che caratterizzava i suoi costumi, che sfruttavano colori vivaci e ispirazioni tradizionali. Pop per i contenuti dei testi di canzoni che inneggiavano al libero amore da Trieste in giù, alla fatalità “portafortuna”, ai chiari di luna di amori fugaci e fuggevoli come avventure estive di straniere in trasferta che passeggiano per Santa Fé. Di uomini che portano donne a veder le stelle e di donne che se lasciate ne trovano seduta stante un altro più bello che problemi non ha. Raffa era pop perché ha attraversato la cultura di massa con la sua personalità baluardo dell’ anti soubrette.

Era anti soubrette perché non piegava il capo di fronte al dominio culturale del sesso maschile, anti soubrette perché ragionava prima di rispondere e soprattutto perché fu capace (dopo Delia Scala) di imporre un modello alternativo di femminile ad un’Italia che guardava alla donna per la prima volta con occhi diversi. Non più “oche giulive” (o presunte tali) che sanno fare poco, ma una professionista di talento capace di cantare, ballare e recitare davvero, non più la ragazzina maggiorata, ma una bella donna dotata del fascino dell’intelligenza e di un sorriso disarmante. Un sorriso che aveva incantato persino Frank Sinatra sul set di Il colonnello Von Ryan (1965) storia che infuocò i rotocalchi rosa e che si concluse per lui con il matrimonio con Mia Farrow per ripiego e per lei con la storia d’amore con Boncompagni nata per ripicca. 

Come ha scritto Silvia Garambois (l’Unità) Raffaella Carrà era unica perché fu “Libera e coraggiosa. E pure comunista. Ha fatto cose terribili: ha aperto la TV all’ora di pranzo, si è messa al telefono in diretta col pubblico. Ci lasciava di sasso con programmi che sulla carta erano trash e a cui lei dava umanità. Poi, gli epigoni, sono diventati trash e molto peggio". Forse anche per questo è diventata infine un’icona per la comunità LGBT, cosa di cui era molto orgogliosa. Di cui oggi siamo orgogliosi tutti.