Abbiamo approfittato della presenza di Alessandro Rak per porgli qualche domanda, consci che Gatta Cenerentola è stato uno dei film più originali e sorprendenti di questa prima parte di stagione. 

Alesssandro Rak, sarei curiosa di sapere: gli ologrammi e la riflessione sull’importanza della memoria in Gatta Cenerentola sono ispirati, in parte, a Blade Runner di Ridley Scott ed al suo immaginario?

Ci sono film che sono pietre miliari nell’immaginario ed ovviamente, anche senza voler essere un riferimento, lo diventano in maniera implicita per tutti i cineasti. Blade Runner è uno di questi. Nel senso che scolpisce l’immaginario cinematografico delle persone e, se anche non fosse il mio immaginario, comunque sarebbe quello delle persone che mi stanno intorno. Non credo che ci sia un riferimento esplicito al film o alle idee del film, però credo che, a partire dai testi di Philip Dick fino alla lavorazione cinematografica, Blade Runner abbia sicuramente determinato un’idea di cyberpunk e di futuristico. Il film nelle prime stesure della sceneggiatura di Ivan Cappiello sicuramente aveva una certa propensione verso Blade Runner e l’idea di fare una storia “bladerunneriana”. Poi, con il mio ingresso in sceneggiatura, si è spostato dalla forma di cyberpunk verso una sorta di retro-futurismo. L’ambientazione del film ha anche perso dei connotati di tecnologia robotica che abbiamo indirizzato verso una tecnologia caratterizzata da ologrammi. Nella mia idea poteva dare un’aspetto un po’ più “amletico” alla Cenerentola e poteva così speziare un po’ di più la storia portando la relazione tra passato e presente ad essere più viva.

Lei ha in qualche modo riportato in vita un meccanismo fermo, motivo per il quale le è stato assegnato il Premio Pasinetti. Infatti se si guarda alla storia dell’animazione italiana, aldilà dei Caroselli, della Gabbianella e il gatto, non c’è molto altro.

Nel portare avanti questo tipo di animazione per “adulti”, è strano da dire perché poi si può pensare a prodotti d’altro genere, noi cerchiamo più che altro di creare un’animazione un po’ più trasversale come mezzo di comunicazione. La nostra idea è cercare di liberare l’animazione dal gioco del target che non vuol dire necessariamente farla per adulti e basta, ma significa che chi racconta deve sentirsi libero di raccontare le istanze, le urgenze, che ha dentro e non invece adeguarsi biecamente o banalmente ad un mercato o alla necessità di un mercato.

Infatti volevo chiederle se lei pensa che potrà esserci una riflessione approfondita rispetto questo tipo di animazione dedicata in un certo senso agli “adulti”?

Nel tempo abbiamo registrato un’aumento d’attenzione, rispetto all’animazione ed ai prodotti che creiamo, il che ci fa avere buone prospettive per continuare a lavorare. All’inizio era un lavoro molto più pionieristico, avvenuto assolutamente nel buio di una stanza. Già con L’arte della felicità, ed il fatto che fosse stato evento di apertura della settimana della critica di Venezia e che abbia poi vinto agli European Film Award come miglior film di animazione, è cominciato, in qualche modo, un percorso di attenzione, da parte anche delle realtà statali e pubbliche, verso il nostro cinema che ci fa ben sperare e, più che altro, ci fa conservare bene la voglia di operare nel settore.

Quindi lei spera ci sia un futuro per l’animazione italiana?

Si, ma io spero ci sia un futuro per ogni cosa. Rispetto all’animazione più che sperare cerco di operare insieme con i miei colleghi.

Come ha deciso di intraprendere la strada dell’animazione?

Io ho iniziato da bambino a disegnare, poi il fumetto in sé così come l’illustrazione sono gli strumenti più poveri per raccontare qualcosa, così come la letteratura. Però il disegno è in un certo senso molto più istintivo della letteratura e questo mi piaceva e mi piace. Dopodiché c’è stato l’incontro con le tecnologie nell’animazione. Tecnologie in grado di filmare, registrare gli elementi, metterli in fila e proiettarli ad una determinata velocità con diversi tipi di software per la lavorazione in 3D o 2D (le tavolette digitali). Chiaramente, tutto questo, fa dell’animazione un procedimento molto più complesso del disegno in sé. Però mi viene istintivo ragionare in modo più elaborato anche perché mi permette di mettere dentro la musica, la voce, le parole. Quindi appena ho avuto la possibilità di disporre di queste strumentazioni (che poi, fortunatamente, sono diventate strumentazioni per tutti, nell’arco di questi ultimi dieci, quindici anni) mi sono subito lanciato, perché mi appassionano molto più che il fumetto o l’illustrazione. Questo proprio perché il movimento, la musica, i suoni e quindi il fatto di poter mettere in gioco più sensi, in un unico calderone, rispetto a quello che concede il solo fumetto, è per me una gioia. Una gioia anche per il fatto di poter lavorare anche con altri, mentre il fumetto e l’illustrazione sono lavori più solitari, individualisti.

Volevo proprio chiederle com’è lavorare con un team così ristretto di persone?

Se si guardano con attenzione i titoli di coda i nomi si ripetono in continuazione, sembrano tantissimi, ma in realtà sono quindici persone, e poco più, rigiocate in più ruoli. Essendo pochi siamo costretti a fare più cose e, a seconda della fase produttiva in cui ci troviamo, le persone passano da un ruolo come la concept art, quindi i bozzetti iniziali, all’animazione, poi alla lavorazione delle scenografie fino alla post produzione. Ogni persona nello studio bene o male impara a spostarsi di ruolo e ad approfondire fasi produttive diverse.

Cosa ne pensa di questo momento del cinema sempre più ambientato a Napoli? Che, partendo da Gomorra fino ai recenti Ammore e malavita, L'equilibrio o anche L’intrusa, sta in qualche modo evolvendo?

Penso che Napoli sia una città viva cinematograficamente e non ha la storia e i fasti cinematografici di una città come Roma, che a suo modo penso sia abbastanza unica come città del cinema in generale. Napoli proprio perché è “nuova” e non ha queste strutture e non ha pilastri così pesanti ha la possibilità di avere un linguaggio che può essere più giovane, moderno e libero. Quindi è più predisposto a guardare al futuro piuttosto che ad un passato e penso che sia proprio questo che si sta notando. Napoli è una città che ha un forte fermento culturale e per noi napoletani è quasi scontato. Lo sappiamo da sempre che è una città che ispira e che permette di lasciare spazio alla concentrazione sugli aspetti del “bello del vivere”. Anche se magari, descritta dall’esterno, sembra tutt’altro genere di città.

Avrei un’ultima curiosità: come le è venuta in mente la costruzione del personaggio transessuale?

La “sesta sora”! Nel 1976 De Simone ha realizzato un’opera teatrale importante che si chiama sempre Gatta Cenerentola ed anche quella è presa dall’opera di Basile del 1634. Quello è stato il primo momento in cui l’opera di Basile trovava una nuova forma narrativa. Veniva infatti tramandata la fiaba di Cenerentola con un potenziale sia narrativo che trasgressivo fortissimo. E associando di nuovo la fiaba di Cenerentola a quello che è un po’ l’immaginario folle in “melting pot” culturale, che c’è anche a Napoli, abbiamo ripreso la figura del “femmeniello” che, faceva già la sua comparsa anche nell’opera di De Simone. A Napoli è definito così il personaggio omosessuale che ostenta, in un certo senso, la propria omosessualità. È una figura storica napoletana, una figura popolare, quasi “presepiale” e quindi ci sembrava un dovuto omaggio a quella che è parte della nostra cultura.