Capita spesso di notare come il cinema italiano, quando guarda al suo passato – in particolare quando lo fa alla luce della sua dimensione più nazionalpopolare – lo faccia ponendosi una diretta domanda, “come eravamo?”, per poi rilanciarla al presente/futuro, “come dovremmo essere?”, cercando di interpellare un pubblico geograficamente e culturalmente determinato. Nei temi, negli interrogativi, nei conflitti c’è sempre qualcosa che vive o, meglio, che viene fatto vivere ancora oggi.
Invelle, il primo lungometraggio animato di Simone Massi – noto ai più per i suoi cortometraggi e al festival di Venezia per manifesti e sigle – sembra abitare uno spazio simile, ma interrogare uno spirito diverso, sembra immergersi in un subconscio italiano fatto di soprusi e violenze, di rabbia e di vendette. E chiedersi: cosa ci faceva paura? Cosa ci faceva arrabbiare? Cosa ci spingeva alla violenza? Al dolore, agli addii, alle miserie?
Per Massi la storia del novecento italiano passa da qui e, tra immersioni ed emersioni quasi caleidoscopiche, alterna il singolo e il tutto, la briciola e l’universo, la famiglia e la nazione. Le storie di tre nuclei famigliari enunciate dagli occhi innocenti di tre bambini – Zelinda, Assunta e Icaro (idealmente: la nonna, la madre e il regista stesso) – si intrecciano con altrettanti momenti chiave della Storia: la prima e la seconda guerra mondiale, il dopoguerra, fino agli anni di piombo, da Almirante ad Aldo Moro. In mezzo: l’industrializzazione, le masse operaie e l’urbanizzazione, viste attraverso gli occhi contemporaneamente incontaminati e cinici di chi viene dalla campagna, personaggi pragmatici, terribili e magnifici, morti o sopravvissuti, sradicati e feriti.
Procedendo quasi per genealogie, Invelle alterna punti di vista non canonici – la vita delle donne durante la prima guerra mondiale e quella dei bambini a scuola durante la seconda – e aspetti documentari di un voice-over tra testimonianza (e qui si ricorda La strada dei Samouni che Massi ha animato per Stefano Savona) e monologhi (voci di Servillo, Timi, Lo Cascio…). Ricamati attorno a un’immagine viva, che si muove quasi come se fosse composta da materia pulsante, vermi o batteri in continuo movimento, lo stampo di una storia che ha tolto i colori (il bianco e nero di Massi è sempre sintomo di uno sguardo duro sul mondo), ma che sanguina di rosso.
Così come il “nessun posto” a cui fa riferimento il titolo del film, Invelle è il non luogo della provincia italiana, il “nessun posto in particolare”. Qualcosa che c’è, pur non essendo degna di un nome specifico. Per questo motivo la storia lascia il segno come se fosse passata su un foglio bianco. È lì, nella sineddoche contadina, che Massi fa vivere le sue domande sulla Storia. Dove eravamo? In che luogo? Invelle è la risposta, che sia “in nessuno posto” come mancanza di orizzonte o “in nessun posto in particolare” come speranza di cambiamento celata da bugia a fin di bene.