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“Invelle” in nessun posto in particolare

Invelle, il primo lungometraggio animato di Simone Massi – noto ai più per i suoi cortometraggi e al festival di Venezia per manifesti e sigle – sembra immergersi in un subconscio italiano fatto di soprusi e violenze, di rabbia e di vendette. E chiedersi: cosa ci faceva paura? Cosa ci faceva arrabbiare? Cosa ci spingeva alla violenza? Al dolore, agli addii, alle miserie? Invelle è il non luogo della provincia italiana, il “nessun posto in particolare”.

L’arte di Simone Massi – Lavoro resistente

Massi si definisce un animatore resistente, realizzando quella che per tanti rimane solo un’utopia, ovvero lavorare seguendo la propria vocazione, abbandonata la fabbrica di Fabriano si iscrive alla Scuola d’Arte di Urbino, l’urgenza di lasciarsi alle spalle un futuro suicida da operaio, una vita che avrebbe avuto il ritmo insostenibile della catena di montaggio, lo ha costretto a riprendere in mano gli strumenti con i quali durante l’infanzia, un po’ per gioco un po’ per necessità, era riuscito ad esprimere quell’interiorità ancora acerba che già provocava stupore. Questo stupore con gli anni è cresciuto, la scoperta di uno stile personale e inconfondibile ha rafforzato la potenza delle linee immobili tracciate sul foglio, immagini della memoria in eterno movimento divenute fotogrammi di un racconto talmente intimo da portare Massi al rifiuto dell’aiuto della tecnologia che avrebbe facilitato il lavoro snaturando il gesto dell’artista, privato della libertà di azione diretta sulla materia, uno sforzo di vitale importanza.

La guerra senza filtro

Il film è costruito in una oscillazione tra passato e presente (il passato animato dai disegni), che lentamente prepara lo spettatore alla “guerra in diretta” vista dall’occhio del mirino, dopo una lenta introduzione empatica in quelli dei protagonisti. Attraverso i racconti della loro vita, le nenie, le preghiere, i poveri pasti, i desideri per il futuro e le speranze (sì, le speranze, perchè l’uomo non finisce di sperare nemmeno attraversando morte) lo spettatore è messo nelle condizioni di “entrare nei loro panni”, vivere una identificazione totale con i protagonisti e dunque sperimentare la più inaccettabile ed agghiacciante realtà da loro vissuta nel momento in cui vengono sterminati. Savona usa le immagini degli attacchi ricostruite dal punto di vista di un drone in volo sopra la strada dei Samouni, per farci vedere la guerra nel momento stesso in cui accade.

“La strada dei Samouni” e l’umanesimo degli individui

La strada dei Samouni prescinde dalla politica e racconta l’umanesimo di individui, parole, tradizioni e legami familiari. Savona non si prende la briga, per suscitare maggiore empatia, di stemperare gli aspetti della cultura palestinese più lontani dai valori degli spettatori occidentali: matrimoni combinati dalle famiglie, svilimento della figura femminile, pervasività della religione musulmana. Non ne ha alcun bisogno. Gli basta seguire Amal, una bambina rimasta quasi uccisa quella notte e sopravvissuta per giorni accanto ai cadaveri dei suoi familiari. Una narratrice che all’inizio dice di non ricordare e di non saper raccontare le storie, ma poi lo farà coi suoi modi e tempi, dando l’avvio e il passo a uno sviluppo filmico circonvoluto, ellittico, pudico di fronte al grande dolore.