Hynassis Port, 1963. Circa una settimana dopo l’assassinio del marito, Jacqueline Kennedy, detta Jackie, si è ritirata con i figli in una tenuta isolata nel Massachusetts. L’intervista di un reporter in visita da New York è il filo conduttore che ripercorre i giorni immediatamente successivi all’attentato di Dallas.

Al suo primo film hollywoodiano, Pablo Larraín  rinuncia ad alcuni dei suoi più fedeli collaboratori – dall’attore feticcio Alfredo Castro al direttore della fotografia Sergio Armstrong, da sempre presenti nei film del regista cileno – costruendo la sua opera più raffinata ed effimera, come il celebre tailleur rosa indossato da Jackie il giorno dell’omicidio, e, al tempo stesso, attraversata da un’aura inevitabilmente funesta, come le macchie di sangue di cui non vuole liberarsi per non recidere l’ultimo legame con il marito.

Quella di Jackie è una storia apparentemente distante dall’universo di Larraín , ma in cui sono riconoscibili dei tratti stilistici ben consolidati. Il dialogo fra la protagonista e il suo confessore – ispirato al giornalista di Life Theodor H. White – ricorda molto gli interrogatori di Padre Garcia ai quattro preti sconsacrati in Il Club, dove ogni personaggio è isolato nei primi piani frontali come in una prigione. Sia White che Garcia, ognuno a suo modo, sono alla ricerca di una storia sensazionale che possa rilanciare le loro carriere, ma entrambi sono destinati a cedere.  White viola l’etica giornalistica consentendo a Jackie di influenzare il suo articolo; raccoglie la testimonianza non più come un cronista politico, ma come un servitore sgomento di fronte al dolore di una vedova in lutto.

Come in Neruda Larraín  non cerca di raccontare il mito, ma l’intimità della sua protagonista dietro la patina epica della grande storia, in una commistione fra verità e finzione, immagine pubblica – marchiata dall’immutabilità della realtà storica – e immagine privata – frutto della percezione dell’autore.

Jacqueline Kennedy è una donna fragile e conformista nell’America degli anni ’60; una regina senza corona che perde in un colpo solo trono e marito. Il regista ci racconta la solitudine dell’ex first lady nei giorni successivi all’attentato: la vediamo camminare nei corridoi ormai deserti della Casa Bianca fra abiti eleganti, bicchieri di gin e una sigaretta dietro l’altra, accompagnata dall’ultima canzone del musical Camelot, tanto amato da John, come sottofondo di musica diegetica. Nessuno le è rimasto accanto, solo due guardie del corpo discrete e imperscrutabili in fondo a un lungo corridoio, che sembrano più far parte dell’arredo raffinato di un castello che fra qualche ora non sarà più il suo. Un’immagine nettamente contrapposta al mecenatismo mondano che ha caratterizzato i due anni di presidenza.

Sola contro tutti, si impegna per riservare al marito un corteo funebre regale perché la gente non lo possa dimenticare. Nel corso di pochissimi giorni lotta per trasformare JFK in una leggenda al pari di Abraham Lincoln. La sua dedizione non è un riconoscimento negli ideali politici di John, ma l’asservimento di una dama fragile al suo cavaliere forte e carismatico.

Durante l’intervista allude alle frequenti scappatelle del presidente come una donna di casa subalterna al marito fedifrago: «A volte andava nel deserto da solo, per farsi tentare dal diavolo. Ma poi tornava sempre dalla sua amata famiglia». Eppure, già dalla prima inquadratura, Jackie riempie prepotentemente il centro del fotogramma, lasciando ai margini gli intraprendenti fratelli Kennedy.  Il ritratto che ne esce è quello di una donna piena di stile, raffinata e imperscrutabile, come i manichini disarticolati nella vetrina di Hamilton, che Jackie si sofferma a guardare dalla macchina una volta lasciata definitivamente la Casa Bianca.

Jackie è un film fatto di frammenti e brandelli di ricordi, dove la memoria assume la prospettiva di un immaginario non realistico. Se in Neruda la specularità fra realtà storica e immaginazione è quasi esplicita nelle azioni dei due protagonista – da una parte Pablo, in fuga dalle autorità e da se stesso, dall’altra il poliziotto Oliver letteralmente ostinato a non restare un personaggio secondario frutto della fantasia dell’Autore – in Jackie rimane rigorosamente fra le righe, condensata in alcuni scambi di battute con White e nel penetrante sguardo in macchina di Natalie Portman poco prima del finale come per cercare un dialogo con lo spettatore e rifiutare il suo statuto di personaggio storico ed immutabile.

La Jackie di Natalie Portman è un personaggio filmico prima ancora che storico e per questo è più umano, fragile e pieno di contraddizioni, la cui intensità rende trascurabili agli occhi dello spettatore le sottili inesattezze storiche.