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“El Conde” nel vampirismo della Storia

Larraín, nella sua satira, con una buona intuizione, racconta come oggi l’eredità politica sia sempre coscientemente slegata a una corrispettiva responsabilità politica. Per quanto evidente e servita, la metafora rimane precisa. E per storpiare un’abusata frase di Fredric Jameson – stando a questo film e all’eredità dei personaggi trattati, alla società contemporanea, al neoliberismo e alla fine della Storia – è ancora molto più facile immaginare la fine di un vampiro che la fine del capitalismo.

“Spencer” come fantasmagoria di palazzo

Pablo Larraín racconta le fughe e i ricongiungimenti di un personaggio tormentato attraverso cui emerge il portato socio-culturale di un intero paese, costruisce un’identità schizofrenica, ingabbiata da una ripresa che alterna movimenti spasmodici, carrellate e una sovrabbondanza di piani autoriferiti ed “egotisti”; tutto intorno sfilano corridoi, spazi aperti, interni claustrali, stanze e simulacri del potere, alberi e prati, il tumulto interiore di una vita sbilenca e di una storia privata che trascolora nella mitologia pubblica.

“Spencer” e la fuga di Diana dalla luce

Spencer di Pablo Larraín, interpretato da una bravissima Kristen Stewart – sempre troppo sottovalutata – è un film di fantasmi che abitano luoghi e persone; come Anna Bolena, che appare negli incubi ad occhi aperti di Diana Spencer, come uno dei visitatori spettrali dickensiani – che aiutano Ebenezer Scrooge a intraprendere la sua redenzione – per suggerirle di scappare per salvare almeno la sua, di testa. Anna Bolena è Diana Spencer, le due sono legate allo stesso cappio: un matrimonio infelice, una tradizione oppressiva e annichilente, e l’impossibilità di potersi dileguare, perché l’unica legge che conta è la legge del palazzo, è la corona, è la sovranità disumana e insulare che il popolo vede e anela nei reali.

“Ema” di Pablo Larraín a Venezia 2019

Più di uno spettatore qui a Venezia ha creduto di vedere in Ema una sterzata nel cinema di Pablo Larraín, tentazione comprensibile perché per una volta il regista cileno non mette in scena apertamente nè la Storia nè la biografia, e sostituisce al suo stile consueto, quell’inconfondibile ibrido semi-documentaristico che si ingrigiva mimetizzandosi da materiale di repertorio per toccare ancor più con mano i contesti esplorati, un elegante tocco arthouse che fa proprio in senso ampio il concetto di performance (danza, teatro, street art ecc) e lo pone apparentemente più nelle vicinanze del Suspiria di Guadagnino che non di Post Mortem o Tony Manero

“Jackie”: la regina senza corona

Hynassis Port, 1963. Circa una settimana dopo l’assassinio del marito, Jacqueline Kennedy, detta Jackie, si è ritirata con i figli in una tenuta isolata nel Massachusetts. L’intervista di un reporter in visita da New York è il filo conduttore che ripercorre i giorni immediatamente successivi all’attentato di Dallas.