Tempi moderniMonsieur Verdoux e Luci della ribalta sono probabilmente i film più complessi da affrontare della filmografia di Charlie Chaplin e Jean Renoir nei suoi scritti li affronta tutti e tre. Il primo è il titolo che segna la rottura di una tradizione, quella del film muto. Infatti per la prima volta possiamo sentire la voce del vagabondo, in quella che sarà praticamente la sua ultima apparizione sul grande schermo. Già da Il grande dittatore Chaplin abbandona Charlot e inizia ad interpretare altri personaggi. Si approccia al sonoro con accortezza, trasformando i suoi timori in un capolavoro di giochi di suoni, voci e musica.

Jean Renoir nel testo A proposito di “Tempi moderni”, apparso su Ciné-Liberté, il 20 maggio 1936, prima di iniziare a scrivere in maniera specifica del film, descrive la sua visione paradisiaca di un’alba, vista dalle finestre dello stabilimento in cui lui ed i colleghi avevano passato la notte sul tavolo di montaggio. Queste immagini felici che Renoir descrive sono la chiave per introdurre ad una critica nei confronti degli industriali e di una certa corrente di cinema a cui lui sente affine il film di Chaplin: “E, al di là di questa oasi, come sfondo, potevamo distinguere case che cadevano a pezzi, fabbriche che fumavano tragicamente, tutto il quadro classico della banlieue parigina, un tempo il più bel paesaggio del mondo, oggi devastato, insozzato, sfigurato dalla cupidigia e dalla stupidità degli industriali e dei proprietari di terreni. Il film di Charlot è tutto questo. È più di uno spettacolo, è un rifugio. Tutta la mia riconoscenza va a questo uomo che può permettermi, varcata la soglia di un cinema, di sentirmi al sicuro come dietro a una frontiera insuperabile. Fin dalla prima immagine dimentico le porcherie del mio mestiere, nondimeno il più bello del mondo; dimentico che gli imbecilli, gli avidi lo hanno avvilito e calpestato allo stesso modo dei frutteti dell’Ile-de-France. Tutto mi sembra facile, aereo. Si ha l’impressione, uscendo, di poter fare anche noi dei film così. A tal punto le immagini sembrano venire da sole. Si è detto che Charlot era un pessimista disincantato. È possibile. A me, mette le ali”.

In seguito Renoir si chiede se davvero le critiche negative rivolte a Tempi moderni e quindi a Chaplin abbiano un senso, e se esse siano in qualche modo intelligenti o solo di un pubblico che “si picca di intellettualismo”, magari in buona fede, ma che nel profondo non si sforza di “mettersi nella condizione di apprezzare un lavoro basato sulla espressione di una forte individualità”. Renoir vede in Charlot un aspetto che, ad un primo livello, esteriormente rimane sempre identico, ma che ad un livello più profondo non è mai identico, è sempre e continuamente diverso da sé stesso. Un maestro nel portare il pubblico da un percorso all’altro: “Questo rinnovamento interiore è uno dei segni del genio. Presuppone un coraggio forse inconscio, ma innegabile. Pochi autori possiedono questo coraggio. Credono di mettersi al livello di quella che chiamano 'la massa', evitano accuratamente ogni originalità interiore, e si limitano a dare l’impressione del rinnovamento cambiando la cornice esteriore del loro soggetto, variando l’identità, l’abito del loro personaggio. […] e aspetto con impazienza il momento in cui questa massa, che essi credono di aver conquistato, avrà infine la sua parola da dire e spazzerà via come si deve tutta questa elegante gentaglia”.

Jean Renoir ha poche parole gentili per certe correnti, certi film e personaggi; a volte ne fa i nomi in maniera esplicita, più spesso lascia che i suoi lettori decifrino a chi sono rivolti i sofisticati insulti. Sicuramente tra i suoi scritti più positivi ci solo quelli all’amico “fraterno” Jacques Becker, a Eric von Stroheim, a André Bazin e a Charlie Chaplin. Si intenda, non è che non scriva a favore d’altri, ma per questi ha un approccio diverso. Li ama tutti profondamente, ne ama i pensieri, il cinema e le loro visioni e per questo li rispetta profondamente e ne scrive con la stessa cura di quando mette in scena i personaggi dei suoi film. Ne coglie i dettagli e le sfumature e fa in modo di restituirli al suo pubblico con uno sguardo filtrato dalla sua visione; quella di un’uomo che scrive di non sapere, e non voler riconoscere, dove si ferma il sogno e dove inizia la realtà.

Nel testo No, “Monsieur Verdoux” non ha ucciso Charlie Chaplin!, apparso su L’Ecran Français (nel luglio del 1947) Jean Renoir scrive: “La notte scorsa ho fatto uno strano sogno. Ero nella mia sala da pranzo e stavo tagliando un cosciotto. Procedevo alla francese, cioè nel senso della lunghezza. […] Quando mi informai circa i gusti dei miei invitati, questi uscirono da quella specie di annebbiamento che si ha solo quando si dorme e riconobbi persone che ammiro e che amo. Le coppie de I migliori anni della nostra vita erano lì alla mia tavola e mi sorridevano gentilmente. Li servii e mangiarono con buon appetito. Al loro fianco, il prete e la donna incinta di Roma città aperta si mostravano un po’ più riservati, ma non meno amichevoli. […] Andai ad aprire e mi trovai in presenza di un signore dall’aspetto distinto. Dapprima, mi ricordò vagamente qualcuno che conoscevo bene, una specie di vagabondo che aveva fatto ridere il mondo intero. Ma capii presto che questa rassomiglianza era solo fisica. […] E da tutta la sua persona emanava questa impressione di passioni contenute, di temibili segreti, appannaggio della borghesia delle vecchie civiltà occidentali”.

Jean Renoir continua poi nel suo testo le lusinghe a questo ospite che dice di chiamarsi Verdoux, ma bruscamente il sogno viene interrotto da una folla inferocita che grida contro lo sventurato fino a colpirlo ripetutamente col bastone. Questo sogno descrive ciò che Renoir pensa del nuovo personaggio di Chaplin e si scaglia contro i critici che lo hanno “violentemente attaccato” per “un timor panico di fronte a un cambiamento completo, di fronte a un passo avanti particolarmente brusco nell’evoluzione di un artista”. Jean Renoir successivamente mette a confronto i percorsi artistici di Molière e di Chaplin. Entrambi raggiunta una certa maturità cambiano drasticamente e non sono più inscrivibili nelle categorie che la critica aveva riservato per loro, così per entrambi “piovono accuse”. Ad esse Renoir risponde sostenendo che “l’epoca delle cattedrali è finita, dacché la grande fede che doveva creare il nostro mondo moderno non serve più a dare agli artisti la forza di perdersi in un immenso coro in gloria di Dio, l’espressione umana di valore può essere soltanto individuale. Anche nei casi di collaborazione, l’opera vale solo se la personalità di ciascuno degli autori resta percettibile al pubblico”.

Renoir vede in Monsieur Verdoux una trasformazione della cinematografia chapliniana dovuta al normale processo di maturazione degli uomini. L’esperienza e la vita portano ai cambiamenti: “E smettiamola di riempirci la bocca con l’appellativo di artisti e di invocare a ogni piè sospinto le grandi tradizioni”. Alcuni degli attacchi da parte della critica erano a sfavore dell’uccisione simbolica del vagabondo, poiché auspicavano un cambiamento, ma secondo questi ultimi Chaplin avrebbe dovuto tenerlo in vita e basarsi su di esso per ricercare una nuova espressione; Jean Renoir, come scrive, non è d’accordo con questa opinione.  Per Renoir infatti l’uccisione del vagabondo è più che motivata. Il fatto che Chaplin si sia spogliato di quella maschera gli permette di stravolgere le atmosfere quasi fiabesche entro cui le narrazioni precedenti erano collocabili per inserirsi all’interno del contemporaneo: “Abbandonato così una formula che gli offriva ogni sicurezza, affrontando direttamente la critica della società in cui egli stesso vive, compito estremamente pericoloso, il nostro autore eleva il nostro mestiere al rango delle grandi espressioni classiche dello spirito umano e rafforza la nostra speranza di poterlo considerare sempre più un’arte”.

Ecco che infatti Renoir si chiede: “Un giorno Chaplin scrive Monsieur Verdoux. Abbandona le forme esteriori alle quali aveva abituato il suo pubblico. Grande ondata di indignazione: lo si trascina nel fango. Dopo La scuola delle mogli, Molière, invece di mollare, non ha smesso di vibrare dei colpi sempre più pesanti. La sua commedia successiva fu Tartufo, che attaccava la falsa religione e i bigotti. Quale sarà il prossimo film di Chaplin?”. Abbandonata la tecnica della risata dovuta alle debolezze del suo vagabondo, Chaplin affronta con Verdoux il cinismo: un’arma tagliente, scandalosa e scomoda per molti. Il cinismo feroce e acuto del furfante è molto divertente sia per Jean Renoir, sia per un pubblico a noi contemporaneo; è impossibile non ridere durante la sequenza del matrimonio: dal sandwich, ai falsi dolori alla schiena fino a una voce sguaiata che diventa inconfondibile pur all’interno di una folla. O anche durante le diverse corse sudate da una casa all’altra e durante la lugubre gita in barca: una perfetta commistione tra caratteristiche slapstick e spiccato humor nero.

Il film successivo a Monsieur Verdoux è Luci della ribalta, qui Chaplin confeziona una delle sue storie più drammatiche. Il film ruota attorno ai temi dell’alcolismo, del suicidio, della falsa pietà e del perbenismo ottuso per intrecciarsi intorno a un unico arco narrativo che, nel finale, diventa sogno: la storia di un grande comico che (forse) non fa più ridere e quella di una ballerina che invece è pronta per essere al centro della scena. Secondo quanto scrive Jean Renoir in Testimonianza su “Luci della ribalta” (apparso sui Cahiers du Cinéma nel dicembre del 1952) Chaplin in Luci della ribalta appare più come autore che come attore. Egli infatti lascia maggior spazio alla storia che vuole raccontare piuttosto che al personaggio che, dal centro della scena, dirigeva gli eventi e li collegava fra loro. Ecco un’ulteriore, enorme e straordinario cambiamento della sua personalità d’artista: “Chaplin ci ha pur dato dei capolavori. È forse la prima volta che ci dà un’opera di forma e di ispirazione perfettamente classica. La sua gioia l’altra sera alla Comédie Française ascoltando il Don Giovanni non era finzione. Si trovava in famiglia, e fa sempre piacere ritrovarsi con i propri famigliari. Come i suoi fratelli e le sue sorelle della famiglia dei grandi uomini, Charlot tira dritto per la propria strada, matura, cresce pieno di dubbi per quanto riguarda i particolari secondari del suo mestiere, ma inconsciamente sicuro per quanto riguarda la direzione verso cui lo spinge la sua eterna giovinezza”.

[Testi da: Jean Renoir, La vita è cinema - Tutti gli scritti 1926-1971, a cura di Giovanna Grignaffini e Leonardo Quaresima, Longanesi & C., Milano, 1978]