Come avviene spesso con i grandi autori cinematografici, la poetica di Kenji Misumi si forma entro i confini ben tracciati dell’industria. Conosciuto in Occidente per i film sullo spadaccino Zatoichi e per quelli tratti dal manga Lone Wolf And Cub, Misumi viene ricordato come uno dei principali registi di chanbara (film di cappa e spada, sottocategoria del film in costume jidai-geki), genere prediletto nel cinema d’intrattenimento giapponese degli anni Sessanta e Settanta.
Pur attenendosi al modello imposto dalla Daiei (famoso studio cinematografico giapponese), per cui il regista lavorava, lo stile di Misumi era rigoroso e immediato, facilmente riconoscibile: narrazione stringata, ricorso alle ellissi temporali, uso espressionista dei set e della fotografia, grande senso del ritmo durante le sequenze d’azione. Non è un caso che, fra i registi della Daiei, Misumi fosse il più lento e metodico: la sua cura per il dettaglio era frutto di una sensibilità formale decisamente fuori dal comune.
I film che compongono la cosiddetta “trilogia della spada” sono un esempio brillante del suo approccio cinematografico. Prodotti separatamente e riuniti dalla critica in una saga unica, questi film sono fra i primi diretti da Misumi, e contano tutti sulla performance del prestante Raizō Ichikawa nel ruolo del protagonista. Tre lavori distinti, scritti da sceneggiatori diversi ma tematicamente affini, che riflettono una visione critica della cultura bushido (la via del guerriero) e dei suoi insegnamenti.
Kiru (Destiny’s Son, 1962), il primo dei tre, è un’asciuttissima revenge story sotto il segno della psicanalisi. Scritto da Kaneto Shindo (Onibaba, Kuroneko), il film segue lo spadaccino Shingo in un percorso di educazione alla violenza: la sua è una strada a senso unico, dettata da un moto vendicativo che origina dall’uccisione della madre. Il riferimento freudiano, inedito per un film di quel genere, non potrebbe essere più evidente. La forza che governa il viaggio di Shingo è dunque quella della sua psiche irrisolta. Ed è ammirevole, da questo punto di vista, la capacità di sintesi con cui Misumi riesce ad asciugare il racconto all’osso e ad allineare perfettamente intreccio e personaggio – senza sacrificare il suo gusto per la composizione e per la vivida colorimetria. Non ci sono orpelli, nessuna sequenza di troppo: Kiru è uno studio caratteriale dove ogni duello rinforza il dilemma interiore del protagonista, messo in scena da Misumi con impressionante trasparenza.
Il successivo Ken (The Sword, 1964) racconta un simile conflitto, scegliendo però la prospettiva del gendai-geki, ossia il film di ambientazione contemporanea: il risultato è l’episodio più curioso, un prodotto singolare nella sua miscela di toni, dal dramma sportivo alla commedia romantica. Unico film in bianco e nero della trilogia, Ken racconta la storia di Kokubu, un giovane studente e insegnante di kendo che ha scolpito la sua esistenza secondo i dettami della disciplina, preferendo una vita solitaria a quella mondana dei suoi allievi: come Kiru, anche Ken è la storia di un’ossessione.
Nell’accostamento tra antico e moderno, Ken presenta un’interessante riflessione sul valore della cultura giapponese, di impronta fortemente maschile, e sulla sua capacità di resistere al tempo. Sfruttando il setting contemporaneo, Misumi offre un’immagine sfaccettata e conflittuale dello stile di vita adottato dal protagonista, evidenziando il contrasto tra la quotidianità studentesca e il rigore stoico di Kobubu: anche qui, ovviamente, la risoluzione del conflitto non può che essere tragica. Lo sguardo di Misumi, in questo caso, è orientato sul versante antropologico del racconto. Le scene d’azione del film precedente lasciano lo spazio allo studio dei corpi, del rapporto fra il singolo e il gruppo, fra la rigida staticità della vita di Kokubu e i movimenti scattosi degli studenti di kendo: una dialettica che riassume il cuore tematico di tutta la trilogia.
Con Kenki (Sword Devil, 1965) Misumi torna infine al period drama, riprendendo uno schema narrativo simile a quello di Kiru. Libero dalle sfumature psicanalitiche del primo film, questo terzo lavoro risulta ancora più espanso in termini di trama e caratterizzazione. L’arco evolutivo di Hanpei, un ragazzo dalle origini misteriose, viene seguito in tutta la sua interezza: si parte quando il giovane protagonista sfoga la propria sensibilità nella floricultura, fino al momento in cui Hanpei apprende l’arte della spada e si trasforma in una vera e propria macchina omicida, al servizio di un nobile del luogo. Kenki culmina in una memorabile scena d’azione: sullo sfondo bellissimo di un campo fiorito, Hanpei è costretto a sfidare un enorme gruppo di nemici, armato solo di katana. Una sequenza eccezionale, coreografata con brio e gusto spettacolare, ma anche un momento cruciale nell’evoluzione del protagonista, schiacciato dalla sua sete di morte in mezzo alla purezza dei fiori.
Questa sintesi poetica fra azione e personaggio rappresenta uno degli elementi più distintivi dello stile di Misumi, che emerge dalla trilogia in tutta la sua limpida grandiosità. Lavorando dentro i confini del prodotto industriale, il regista giapponese aveva trovato un modo tutto suo di conciliare intrattenimento e spessore drammatico, creando una serie di film che cristallizzano perfettamente il dinamismo e la precisione del suo cinema. Già a questo punto, molto prima di raggiungere il pubblico occidentale, quella di Misumi era l’opera di un maestro.