A volte non c’è cosa più difficile che riallinearsi a uno sguardo bambino. Majid Majidi ci costringe a farlo da sempre, dai tempi di Baduk, Pedar e I ragazzi del paradiso, i cui nomi dei protagonisti (Ali e Zahra) recupera anche per Khorshid (Sun Children), il suo ultimo lavoro. Da Venezia 77, c’è già chi accusa Khorshid di accartocciarsi nel proprio sentimentalismo e questa è la conferma che per entrare nell’universo di Majidi bisogna letteralmente piegarsi, abbassarsi all’altezza di quei ragazzi e provare a tenere il tempo delle loro corse, dei loro scatti, dei loro sogni. Non è detto che ci si riesca, a maggior ragione se consideriamo il ritmo serrato dei sobborghi di Teheran, ma sforzarsi di condividere lo sguardo di Ali, Abofazl, Zahra, Mamad e Reda, quello sì, dobbiamo provarci. E il sentimentalismo non c’entra niente perché Khorshid sa essere feroce: feroce, sì, perché un assaggio di tenerezza la offre, solo per privarcene subito dopo. La scelta di recuperarne un po’ e di riconoscere uno dei film più belli e riusciti della carriera di Majidi, a quel punto, sarà solo affar nostro.

I bambini di Teheran corrono. I loro cuori corrono, le loro menti corrono. Corrono per sfuggire alla polizia e alle guardie giurate, ma anche per sottrarsi ai loro aguzzini, gli stessi che gli offrono l’opportunità di supportare le proprie famiglie con lavoretti e piccoli furti. Più veloci degli altri bambini, sono già meccanici, elettricisti, operai edili. Il volto e il corpo di Ali (il talentuoso Rouhollah Zamani) sono quelli di un piccolo adulto, duro, nerboruto, già scolpito dalla strada e dall’istinto di sopravvivenza. Ma è pur sempre un bambino, Ali, e sebbene rubi pneumatici per sostenere se stesso e la madre malata, reca in sé la scintilla di una speranza che ripone in toto nel rapporto di fratellanza che ha instaurato con i suoi amici. È un legame fatto di spintoni, schiaffi e supporto reciproco in quella metropoli che sembra volerli avviluppare in un abbraccio corruttivo.

Manipolato dalle promesse dei suoi sfruttatori, Ali si getta in un’impresa “magica” alla stregua di un moderno Aladino: scavare un tunnel nelle fondamenta della Scuola del Sole — un istituto che cerca di sottrarre i bambini alla strada e al lavoro minorile — per scoprire un “antico tesoro”. È in nome di un represso ma inossidabile attaccamento all’infanzia che Ali coinvolge i suoi amici nella “caccia”, ed è in nome di una strenua speranza che non può arrendersi. Non smette mai di credere nella missione, né quando Reda viene reclutato da un club calcistico nazionale né quando Abofazl gli rivela che la sua famiglia sta pensando di far ritorno in Afghanistan, data l’ulteriore mole di oltraggi che un immigrato deve sopportare in Iran. Anche quando tutti sembrano voler smarcarsi da quel mondo di fatica, illegalità e dolore, Ali continua a scavare. Non lo fa per i suoi protettori, ma per il bisogno di credere in una vita diversa. E mentre tende ogni muscolo del suo corpo maneggiando picconi e piccoli martelli pneumatici, attorno a lui la Scuola del Sole diventa un tesoro più autentico, un tesoro che fa fatica a riconoscere.

Dev’essere la dedica iniziale alle tante (troppe) vittime di lavoro minorile ad aver spiazzato molti critici, perché Majidi non ha alcun interesse a fare un film “di denuncia”, come in molti sostengono. Al contrario, sceglie uno stile adrenalinico, energico, che metta in risalto le risorse dei piccoli protagonisti. Li rincorre, Majidi, nei parcheggi, nelle officine, nella metropolitana, e quando rischia di perderli li recupera dall’alto per poi indugiare sulla scuola, il luogo in cui le loro abilità e il loro coraggio assaporano la possibilità di essere valorizzati. Quella Scuola del Sole che significa rifugio, un’oasi costantemente minacciata dalle insidie adulte oltre i cancelli. Nelle loro condizioni tragiche fatte di abbandono, illegalità e povertà, i bambini di Majidi dimostrano un senso di abnegazione, lealtà e giustizia che valica le leggi più inique dell’uomo e ispira gli adulti che sanno osservarli (come il vice preside, interpretato dal bravissimo Javad Ezzati).

Khorshid è un film che desidera smarcarsi dalla polemica grave e dal “reportage” perché sente il bisogno di restituire un’infanzia ai bambini di cui si fa portavoce. È un’avventura, un viaggio che offre un po’ di disincantata e disillusa magia alle vittime autentiche di una società lacerata. Khorshid non mira a destare compassione, ma scandisce le variazioni dello stato d’animo dei protagonisti nel tentativo di ricucirle alle nostre. Ma laddove lo sguardo critico indugia e si perde, si può sempre sperare in un applauso lungo dieci minuti, come quello che risuona in Sala Grande sullo scorrere dei titoli di coda. E se i nostri giudizi si ostineranno a guardare il mondo di Majidi dall’alto, non ci resta che attendere il suono squillante dell’ultima campanella.